(www.radicalparty.org) DOCUMENTS ON: CHECHNYA / DOC.TYPE: PARTY MEETINGS/SPEECHES
send this page | invia questo testo


30/10/2002 | Lettera aperta a Marco Pannella e al Congresso radicale transanazionale di Tirana
di Adriano Sofri

Caro Marco, ti avevo detto che desideravo partecipare in qualche forma al vostro dibattito, e lo faccio, all’ultimo momento, come al solito. Del resto l’ultimo momento è diventato il nostro modo di permetterci un presente. Vi scrivo, senza far perdere tempo ai giorni preziosi della discussione.

Scrivo della Cecenia, che è urgente. Ci unisce la solidarietà con la terribile e commovente passione di quel piccolo popolo. Anzi, quella solidarietà è stata così assurdamente rara da tramutarci quasi in una setta di iniziati, da contarsi sulle dita delle mani, da chiamarsi per nome e cognome, da confermarsi l’un l’altro, e da chiedersi come fosse possibile che gli altri non vedessero e sentissero. Questa solitudine spiega anche il di più di generosità che tu hai messo nel primo impulsivo commento alla sciagurata impresa di Mosca, dalla orrenda conclusione. Non mi interessa, non fra noi, discutere sulle parole: i sequestratori del teatro Na Dubrovka erano per me terroristi, parola che va dagli attentati di Vera Zasulič e della Narodnaja Volja alle donne curde che entravano incinte di esplosivo nelle garitte turche alle ragazze palestinesi che vanno a farsi esplodere in una discoteca o in un supermercato. Molte sono le strade che portano al terrore. E’ necessario vedere che c’è oggi una minaccia complessiva del terrore, ed è, oltre che necessario, giusto vedere che in essa confluiscono storie diverse e autonome. Detto questo, e detta l’altra cosa decisiva dell’assalto moscovita: che l’incursione russa e la strage che l’ha schiacciata hanno salvato i giovani ceceni dal destino più tremendo e infelice, di diventare loro gli sterminatori di tanti ostaggi inermi –e quella speranza senza prova, che le nere donne abbiano avuto il tempo di rinunciare al loro detonatore- detto tutto questo, il giudizio su quell’impresa è dato dall’inizio: perchè nessuna presa di ostaggi estranei e inermi è mai accettabile, neanche nella più motivata e intrepida delle guerre partigiane. Ce n’è, proprio per i ceceni, una controprova esteriore, dal momento che quell’Aslan Maskhadov regolarmente eletto, cui continuiamo, con fiducia presso che esausta, a far riferimento, aveva da tempo ordinato il bando di qualunque azione armata al di là dei confini ceceni.

Ho pensato in questi giorni che, forse anche per colpa mia –avevo infatti, fino a un certo momento, una conoscenza privilegiata della Cecenia, e ci tenevo molto- tu e altri radicali abbiate sottovalutato la responsabilità fatua e rovinosa di alcuni comandanti ceceni, e specialmente dell’eroe popolare di quelle guerre, Shamil Bassáiev, nella provocazione di una vera guerra per bande fra clan e personalità cecene, di un’invasione folle in Daghestan, di una brusca e traumatica sterzata islamista. Non era facile vederne l’enormità, perchè il cinismo brutale del governo e degli Stati maggiori russi aveva, se non fomentato, subito afferrato i pretesti di quelle sfide ottuse per scatenare la seconda invasione di Grozny, su cui sdcommettevano la nuova carriera di Putin e la smania di vendetta dei generali umiliati appena tre anni prima. Io stesso resistetti ad ammettere la portata di quella degenerazione, anche perchè circostanze d’eccezione mi avevano portato, in tempi puliti, a familiarizzare e addirittura a far amicizia con tante di quelle persone, compreso quello Shamil Bassaiev. Capii più tardi, quand’ero ormai fermato, che la vera partita si era giocata fra la fine del 1996 e l’inizio del 1997, e più esattamente nella campagna elettorale per la Presidenza cecena, condotta sotto la supervisione dell’Osce. Il candidato favorito di quella elezione era Aslan Maskhadov: un militare di professione dell’Armata Rossa, com’era già stato Djochar Dudaiev, ma meno avventuroso ed estroso di lui, e più rigoroso e misurato. Durante la guerra aveva fatto da comandante in capo, solido e affidabile mentre gli altri signori della guerra si illustravano con imprese spettacolose, e si guadagnavano la leggenda: Bassaiev e il suo fido braccio destro Hunkarpasc, Ghilaev, per qualcuno –pochi- Raduev, e poi il piccolo Khalkharoi e i tanti eroi (ed eroine!) delle cittadine e dei villaggi. Come nei poemi epici antichi, che in quella culla d’Europa avevano raccolto tanta loro materia d’origine. I popoli amano i loro eroi in guerra, ma odiano la guerra e preferiscono votare, alle elezioni, per le persone posate e di una certa maturità. Bassaev aveva sì e no 31 anni, era l’Achille di quell’armata di cui Maskhadov era un poco tonante Agamennone, aveva tutto il tempo per costruirsi un futuro politico più ampio, oltretutto, dei confini della piccola Cecenia. Grande, invece, come l’antico sogno della Federazione della Montagna, dei Popoli del Caucaso del Nord, composti di mille genti e lingue e religioni, e uniti dal sogno di indipendenza e unità. Perfino al tempo della rivoluzione bolscevica un rivoluzionario caucasico, Sultan Galiev, aveva promosso un suo autonomismo comunista, presto schiacciato. Bassaiev era attratto dalla chimera caucasica, e si era guadagnato un credito appropriato guidando il battaglione ceceno nella guerra della minuscola repubblica Abkhaza contro il suo nemico tradizionale georgiano. Era questo un orizzonte possibile delle ambizioni di Bassaiev nel 1996, quando giocava a dadi col futuro e si preparava a dare il benservito all’invadente luogotenente, l’emiro Khattab, e al suo tetro jihad afghano-saudita. Bassaiev volle candidarsi alle elezioni presidenziali. Era un errore di calcolo –come quello che confonde la popolarità eroica con le probabilità elettorali- e soprattutto un errore di vanità o di fretta. Bassaiev era uno che all’età, quasi, di Alessandro Magno aveva dirottato aerei, difeso il parlamento a Mosca al tempo del colpo contro Gorbaciov e Eltsin, difeso Dudaiev nel palazzo presidenziale di Grozny curando di uscire per ultimo dalle macerie, presa in ostaggio Budionnovsk e il suo ospedale e imposto il negoziato a Chernomyrdin, vinto battaglie famose, entrato da liberatore nella Grozny dalla quale i russi fuggivano. Dunque aveva ancora più fretta. Si organizzò una campagna nella quale, grazie alla dispersione di voti su altri candidati, Zelimkhan Yanderbiev, Ruslan Khasbulatov e altri minori, sarebbe andato lui al ballottaggio con Maskhadov, e nel testa a testa l’avrebbe battuto. Naturalmente, le elezioni lo castigarono seccamente, e Maskhadov vinse di gran lunga, e Shamil non fu neanche secondo. Dopo, la storia di Bassaiev non la so se non per sentito dire, da qui dentro. Fu successivamente primo ministro, mercante di computer, petroliere, di nuovo guerrigliero alla macchia, e chissà quante altre pazzie ancora. Fu ferito e dato per morto una quantità di volte, ma, a differenza di Alessandro, non morì, e non è morto. Perse un piede, e si fece riprendere mentre lo amputavano senza anestesia. Intanto, invece di rinviare ai sauditi Khattab e il suo camion mimetico e la sua sciarpetta ricordo di Bin Laden, se lo teneva accanto, e ne prendeva denaro e devozioni wahhabite. Maskhadov ha avuto in Bassaev il rivale in agguato, e l’ottusità spietata dei russi lo risospingeva ogni volta dentro il suo ricatto.
Ho ricordato il passaggio cruciale di quella elezione presidenziale, perchè lì si annunciò la catastrofe. Nella loro tradizione, i ceceni si vantano di essere insofferenti di ogni obbedienza, e che ogni ceceno è padrone di se stesso, e ogni famiglia è un regno sovrano. In questa emulazione di tutti contro tutti, i ceceni si uniscono come un sol uomo quando un nemico minaccia la loro terra e il loro popolo: il nemico è il russo. E’ probabile che la tradizione cecena facesse posto a un bel po’ di leggenda, ma questa volta, dopo la guerra del 1993-96, la rivalità fra i ceceni si scatenò con una durezza e un oltranzismo suicidi. Rivalità e divisioni, eroismi di guerra proseguiti in prepotenze e gelosie feudali, carriere d’armi e di mafia, di rapimenti e di petrolio, hanno aperto la strada all’aggressione ubriaca dell’armata russa. I capi ceceni alla fine si sono guadagnati la delusione stremata del loro popolo superstite e disperso.
Oggi Khattab è morto ammazzato, da qualcuno, non importa chi; Yanderbiev è esule in Arabia saudita, uomo di untuosità islamista e legatissimo a quelle centrali –senza carisma, diventato presidente solo perchè era il vice quando Dudaev fu assassinato; Bassaev è in grado, per la supremazia nelle armi e l’assenza di ogni spiraglio di serio negoziato, di tenere in pugno Maskhadov. Questa è la situazione. La violenza feroce ha oggi in Cecenia una quantità di fonti concorrenti.

Ti racconterò adesso un dettaglio. Te lo racconterò a proposito dell’editoriale sul Corriere dell’altro giorno in cui Galli della Loggia spiegava che a ogni male c’è sempre un altro modo di reagire, oltretutto più efficace del terrorismo. E poi esemplificava: “Se i ceceni, per esempio, con i cospicui fondi della Lega Araba, acquistassero pagine di pubblicità sui maggiori quotidiani europei e americani...”, e così via, film da girare, scioperi della fame, incatenamenti agli uffici pubblici. Argomentazione vera, e oltretutto di stretto prestito radicale e pannelliano, e vera anche nella conclusione: che il terrorismo non è tanto la risposta estrema a una violenza schiacciante, quanto l’espressione di una cultura e un’abitudine antica e profonda. E’ vero, e quando vidi gli uomini ceceni adulti che stanno in piedi nella stanza in cui solo i vecchi stanno seduti e le donne stanno in punta di piedi sulla soglia; e vidi i vecchi combattenti sulle montagne, con le cartuccere a tracolla e le sciapke di astrakan, col girotondo guerriero zoppo del lupo, con i ragazzini all’attacco delle colonne blindate armati solo delle urla, e pronti a strappare un kalashnikov al primo caduto, pensai di essere ancora in un racconto di Tolstoj o di Lermontov, e loro erano in racconti di chissà quali secoli antichi. Quella è casa loro. Io non amo il virilismo guerriero in nessun posto del mondo, ma mi accorgo che c’è ancora una differenza. Non sono relativista se non assai relativamente in ogni posto del mondo, ma vedo ancora la differenza fra casa nostra e la loro. Loro non hanno pensato a comprare pagine a pagamento, ammesso che siano efficaci. Loro combattono contro i russi. I russi combattono, diversamente, contro di loro. Loro pensano che i russi siano codardi e ubriachi e senza Dio.
Tuttavia, mentre esiterei molto a scrivere qui che cosa devono fare i ceceni lì invece di combattere, lo dissi francamente, a loro, a casa loro. Poi proverò a dire che cosa c’entra tutto questo con il vostro dibattito congressuale.

Nelle rocambolesche circostanze del mio secondo viaggio ceceno, quando la guerra ebbe una relativa sospensione, mi capitò davvero di discutere con Shamil Bassaiev e altri della violenza e della non violenza, della nazionalità e della religione, del “terrorismo” e dei diritti civili. Non era una discussione usuale, avvenne sia in privato che in pubblico –in una specie di vasta assemblea popolare, in un villaggio sul Terek raccolto per una manifestazione elettorale. Naturalmente era una discussione poco cerimoniale e molto pittoresca, a volte accanita a volte scherzosa. Nè si potrebbe dire che il suo succo fosse nei disaccordi e gli accordi fra noi: era, per così dire, un confronto preliminare. Investiva questioni come la presa di ostaggi civili (anzi, pazienti e personale di ospedali), appunto. Io pensavo che fosse sempre un atto odioso e corruttore, anche in mezzo alla più feroce delle guerre di invasione. Loro ne erano stati protagonisti – Shamil a Budionnovsk, Hunkarpasc, riparando col suo sangue freddo al panico di Raduev, al costo di tanto sangue, a Pervomajskaja. Ora che ne parlavamo, Hunkarpasc era ufficialmente il capo dell’Antiterrorismo ceceno: vedi che andirivieni di ruoli e titoli. Non erano disposti ad ammettere l’ignobiltà della presa di ostaggi, e la mettevano sul conto della guerra, e di una guerra così sleale e squilibrata. E poi vantavano la simpatia –quella cosa orrenda che chiamano sindrome di Stoccolma- che gli ostaggi avevano a loro dire maturato per loro, e lo sdegno per gli “speciali” russi: i quali di fatto a Budionnovsk non ebbero nessuna vittoria, ammazzarono molte persone, e finirono con il cedere alla trattativa. L’efficacia, fra i guerrieri, regolari o no, prevale sempre sull’umanità. Era anche in causa allora la questione della sharia, la legge islamica. Questione complicatissima, perchè l’alternativa non era solo quella, così fatale nei paesi a maggioranza islamica, fra legge dello Stato e legge coranica: in Cecenia vigeva anche la legge tradizionale degli anziani, dei tejp, le famiglie allargate, della vendetta patriarcale (un giurista sardo si sorprenderebbe delle somiglianze). La sharia era la posta dello slittamento da una prospettiva “caucasica” a una islamista.

A un autonomismo federale e, per così dire, “culturale” e multireligioso del Caucaso del Nord –quello del sud vi è visto come un altro mondo, di “turchi” azeri, di “persiani” georgiani...- Shamil sembrava inclinare, e anche al rilievo che avrebbero potuto prendervi, tacendo le armi, i nuovi fantastici mezzi di comunicazione. Ai giovani combattenti i computer piacciono quasi quanto gli automat... In quei giorni, attaccandosi a cavi di fortuna, dentro una sforacchiata roulotte, dei ragazzi di Grozny mettevano su il loro primo collegamento internet. Dei miei irrealistici suggerimenti, gli ingredienti principali erano due: Internet, e l’Unione europea. Bluffavo, quanto a Internet: non sapevo che cosa fosse. Forse anche quanto all’Unione Europea.
Del resto Shamil –oggetto di infinite voci su suoi legami torbidi e doppi con servizi russi, magnati mafiosi e così via- era persuaso che i russi non avrebbero mai rinunciato a cercarlo e ammazzarlo. Quando mi mandò a visitare casa sua e la sua famiglia a Vedenò –il villaggio più bombardato del mondo, credo- lui non ci venne.
Caro Marco, non c’era bisogno dell’arresto di Zakaev per sapere che Putin e i suoi militari non si sognano nemmeno di trattare con Maskhadov, nè con alcun altro rappresentante della varia e lacerata resistenza cecena. Intendono schiacciarla (e che cosa intendevano finora?) e puntare, in quel deserto, su qualche governo filorusso, considerato dai resistenti come fantoccio e traditore, com’è quello di Khadirov, che pure ha dalla sua una stirpe importante. Nessuna prospettiva è possibile intravvedere da questa scelta, se non la certezza di altri massacri e altro terrore. Ma ora voglio lasciare –a malincuore- il rovello ceceno, e accennare alla questione generale che la vostra aspirazione transnazionale solleva. Nel nostro mondo vale poco l’accusa mossa dagli uni agli altri di dimenticarsi questa o quella tragedia, genocidio, sterminio, affamamento: ci sono troppe tragedie perchè non se ne trovi una da rinfacciare. Prendo molto sul serio l’impegno, a volte più ricercato, a volte più estemporaneo, che mettete nel raccogliere e rappresentare i diritti di individui o popolazioni o minoranze –nazionali, religiose, politiche- ai quattro angoli del mondo. Spesso si tratta, come terribilmente in Cecenia, di genti dal passato e dal presente di combattenti strenui, che cercano un riconoscimento alle proprie ragioni offese, una conoscenza da far arrivare al grande mondo che si è fatto piccolo, uno sviluppo alla propria lotta che vedono condannata. A volte nelle loro tradizioni –buddhiste, cristiane, e tante altre- c’è una fonte di passione e intelligenza non violenta. Nessuno può immaginare un trapasso improvviso e pieno da una tradizione di irredentismo guerriero a una di resistenza non violenta, dalle armi e dai gridi di guerra ai gesti e le parole di pace. Per questo il vostro impegno –sulla Cecenia, di fronte a un governo russo furente, sugli ujguri musulmani, di fronte a un governo cinese che organizza l’espianto e il trapianto fisico di un popolo, contro ogni convenzione internazionale, sui montagnards cristiani vietnamiti, tra i quali quel trapasso culturale si è disegnato con l’episodio forse improvvisato e fragile, ma impressionante, dell’adesione vasta al digiuno internazionale per l’ingresso delle donne nel nuovo governo afghano!- il vostro impegno cammina su un bordo affilato, che non a caso i poteri infastiditi denunciano violentemente come complicità col terrorismo. Sono tanti i posti tormentati della terra in cui oggi ribollono assieme terrorismo, guerra di liberazione, intuizione di una non violenza attiva. Quello che voi, e l’associazione delle democrazie cui ambiziosamente fate appello, potete fare e suggerire, è qualcosa che manca, se non sbaglio, e che non è nè la (benedetta) assistenza umanitaria e giuridica, nè il fiancheggiamento politico: bensì, per così dire, una terra di nessuno della conversione all’informazione internazionale e alla militanza attiva non violenta. Questo può anche voler dire “meno violenta”. A quella terra di nessuno, da rendere sempre più larga e accogliente per braccati, stremati e disertori, le frontiere della cattiva violenza, della strumentalizzazione dei civili, delle prese in ostaggio, devono restare segnate e sbarrate senza riserve.

Mi pare questa l’attenzione che, fuori da relativismi che diventano complici e da assolutismi che diventano sciocchi o prepotenti, può sforzarsi di affratellarsi ai buoni diritti e alle guerre antiche dei posti tradizionali della terra, e convertirle. Quanto alle guerre moderne, spesso senza diritti e sempre senza l’attenuante delle tradizioni, esse hanno una sola sanzione e una sola alternativa: una legge internazionale, una polizia internazionale, un tribunale internazionale.

Tanti auguri a voi tutti da Adriano Sofri.

OTHER LANGUAGES