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07/12/2003 | Bruxelles, 7 dicembre 2003: Convegno Radicale Europeo. Relazione di Daniele Capezzone: «Abbattere in tutto il mondo gli ostacoli al diritto individuale alla libertà e alla democrazia»

STATI UNITI D’EUROPA E D’AMERICA
Abbattere in tutto il mondo gli ostacoli
al diritto individuale alla libertà e alla democrazia


di Daniele Capezzone

Bruxelles, 7 dicembre 2003





Introduzione


Care amiche, cari amici,

diciamoci una verità, magari modesta, ma -a suo modo- sicura: questi “Stati Uniti d’Europa e d’America” non sono un “oggetto” facile da maneggiare. Né è semplice sciogliere l’enigma su cosa effettivamente si intenda -anche fra di noi- con questa espressione.
A me, per esempio, vengono subito in mente quattro cose.

In primo luogo -certo- stiamo parlando di uno slogan politico-elettorale (e di uno slogan con potenzialità, con virtualità di efficacia, a mio avviso) lanciato alcuni semestri fa da Marco Pannella.
Uno slogan deve innanzitutto raccogliere un massimo di pensiero in un minimo di parole: altrimenti -com’è ovvio- non parleremmo di “slogan”. Ma deve essere, soprattutto, “evocativo”: deve -cioè- esprimere cose, concetti, segni, che siano in grado di raggiungere il “vissuto” delle persone.
Come mi è già capitato di dire, un segnale da interpretare è venuto -contro molte aspettative- dalla Young & Rubicam, che ha condotto tra i giovani europei, secondo i criteri tutti di mercato che le sono propri, una ricerca, trattando il marchio “Europa” e il marchio “America” alla stregua di altri logo, come Coca-Cola, Nike o Microsoft. Ne è emerso che il marchio, la evocazione “America” è molto apprezzata, nonostante quanto è accaduto in tutti questi mesi, per molti versi perfino più del logo “Europa”. Incredibile per tutti, ma non per noi.

In secondo luogo, slogan a parte, “Stati Uniti d’Europa e d’America” può anche voler dire “Riforma americana” dell’Europa. E siamo in molti a ritenere che una delle cifre del nostro tempo sia effettivamente rappresentata -a partire dai meccanismi istituzionali- proprio dal confronto tra il “modello anglosassone” (o, più correttamente: i modelli anglosassoni) e il modello continentale europeo, quest’ultimo caratterizzato dal prevalere storico del binomio Partito-Stato su quello Persona-Territorio.

In terzo luogo, “Stati Uniti d’Europa e d’America” può anche significare “nuovi rapporti transatlantici”. E’ un dato oggettivo -lo riporto in termini avalutativi, cioè a prescindere da mie personali considerazioni- che, se si va avanti da una parte con le ruvide considerazioni di Rumsfeld sulla “vecchia Europa”, e, dall’altra, con un’Europa tutta dedita a criminalizzare le nefandezze vere o presunte degli americani, non si fanno molti passi in avanti.
Ci sarebbe, invece, molto bisogno di un’America capace di resistere alle tentazioni unilateraliste, e di un’Europa capace di resistere alle tentazioni di Monaco ’38 (che poi -a mio avviso- sono esattamente le stesse di Srebrenica ’95 o di Bagdad 2003).

Infine, in quarto luogo, gli “Stati Uniti d’Europa e d’America” possono anche essere un mezzo, uno strumento. Ad esempio, dal punto di vista della grande campagna lanciata dal Partito Radicale Transnazionale per una “Organizzazione Mondiale della Democrazia”, non sarebbe improprio dire che quella -l’OMD, quello che chiamiamo o vorremmo fosse il WDO- è il fine, l’obiettivo, mentre gli “Stati Uniti d’Europa e d’America” assumerebbero la veste del mezzo, della nuova alleanza (di “like-minded” o di “willing”, a seconda dei gusti -non solo linguistici- di ciascuno di noi) protesa verso quel traguardo.

Realisticamente, a me pare che ci sia del vero in ciascuna di queste quattro cose, e che -però- nessuna di esse esaurisca compiutamente il tema.
Ancora più realisticamente, potremmo dire che “Stati Uniti d’Europa e d’America” indica, insieme, queste quattro cose, unendole in una “direzione di marcia”, in una “traiettoria”, in una “linea politica”.

Il problema è che -come ben sappiamo- in politica non esistono “fusioni a freddo”, e questo genere di dissertazione rischia di divenire un po’ convegnistica. I fatti nuovi, in politica, avvengono -invece- “a caldo”, nel fuoco di un evento, nel calore di un grande scontro.
Da questo punto di vista, il mio rimpianto è grande. Intanto, perché -in altro contesto- la campagna “Iraq libero”, così come era stata pensata e lanciata il 20 gennaio scorso, aveva tutte le caratteristiche per innescare un processo di questo genere. Cos’era, in fondo? Era -insieme- una campagna fatta per togliere di mezzo un dittatore; per sottolineare ancora più chiaramente la prospettiva della libertà e della democrazia come motivo, direi quasi come “movente” dell’iniziativa (va ricordato proprio da me, che non sono sospettabile di disattenzione o di antipatia nei confronti degli americani e di questa amministrazione, che lo splendido discorso di Bush all’American Enterprise Institute -quello, cioè, secondo me più “radicale”, da diritto/dovere di ingerenza- è solo del 28 febbraio, 40 giorni dopo Pannella: prima, si parlava solo del rinvenimento delle armi di distruzione di massa); ancora, “Iraq libero” serviva per rianimare l’ONU, in qualche misura addirittura per inchiodarla alle sue responsabilità, per richiamarla alla sua Carta fondativa, diremmo -con linguaggio italiano- per imporle il “ritorno allo Statuto”; e, in ultima analisi, per gettare le basi di una nuova alleanza dei democratici (Stati Uniti ed Europa in testa), che -attraverso i fini e i mezzi prescelti per affrontare e risolvere il “caso” Iraq- prefigurasse l’obiettivo della Community of democracies, e poi della vera e propria OMD.
Noi sappiamo bene che ciò non è stato possibile in primo luogo (è una consecutio -insieme- cronologica e logica) a causa del “contesto” italiano, di quello che chiamiamo “caso Italia”, che -contro tutto: anche contro la maggioranza assoluta dei parlamentari- ha impedito che un reale dibattito avvenisse (lo scontro: quello, appunto, necessario per la “fusione a caldo”), e che gli stessi firmatari fossero consapevoli di poter essere o no protagonisti della “fusione”.
E’ altra cosa, ma Tony Blair, pur dovendo fare i conti con un’opinione pubblica, una stampa (e anche un Parlamento!) scatenati, ha potuto contare sulla circolazione delle idee (delle sue e di quelle degli altri), e, alla fine, ha pure rovesciato i sondaggi negativi, proprio perché c’è stata “parola”, e il “verbo” delle idee si è fatto “carne”, è entrato nella vita, nella testa e nelle case di ciascun cittadino, di ogni abitante di quella “polis”. Invece, il nostro guaio -e si finisce sempre lì, ma per noi non avrebbe senso andare a parare da qualche altra parte- è che anche per gli “Stati Uniti d’Europa e d’America” vale il discorso di sempre: un’idea vive se è conosciuta, se qualcuno può farla sua (e spiegare le ragioni per cui la fa sua), se qualcun altro può respingerla (e spiegare le ragioni per cui la respinge), se un altro ancora può emendarla o arricchirla (e spiegare le ragioni per cui la emenda o la arricchisce).

Altrimenti, restano le “fusioni a freddo”, o i tentativi, le incursioni che di volta in volta cerchiamo di realizzare. Ma bisogna sapere che si tratta di un terreno accidentato, su cui noi stessi possiamo farci male, e dal quale altri possono presto ritirarsi, se comprendono dove rischiano di finire, per il solo fatto, per la sola “colpa” di averci dato retta…Lo dico a titolo di esempio: pochi ma illustri esponenti neocons con cui ho da qualche giorno difficoltà di comunicazione, oggi sono a Lucca, convocati dal Presidente del Senato Pera e da Gaetano Quagliariello, i quali -Pera e Quagliariello- hanno pensato bene che gli interlocutori “giusti” fossero, tra gli altri, Massimo Teodori e Giorgio La Malfa, non -certo- nessuno di noi, per quanto io ne sappia.

Ma non divago. Dunque: gli “Stati Uniti d’Europa e d’America” sono, in primo luogo, una linea politica, una direzione di marcia, secondo quanto ho detto finora. Sono una proposta politica che qualcuno -Emma, Marco, noi tutti- vuole lanciare a qualcun altro. Mi accingo -allora- a disegnare i tratti che quella proposta dovrebbe avere, secondo me, ma -ripeto- sapendo bene che una proposta è tale se è comunicabile. E oggi, questa proposta -anche questa proposta- non lo è.

“Stati Uniti d’Europa e d’America”, allora, per me significa riflettere su alcuni punti, che costituiscono altrettanti passaggi di questo mio documento:
1. OMD e automonitoraggio delle democrazie occidentali
2. Le attuali tendenze oligarchiche delle società occidentali
3. Gli Stati nazionali contro i diritti e le libertà individuali
4. I modelli anglosassoni contro quelli continentali
5. Libera circolazione delle persone: società aperte (anche) perché multirazziali
6. Laicità degli ordinamenti (anche) per le libertà religiose e di coscienza


1. OMD e automonitoraggio delle democrazie occidentali

Nel corso di un bell’intervento all’ultimo Congresso di Radicali italiani, Angiolo Bandinelli ha -come spesso gli capita- detto una cosa importante con un’immagine viva, forte. Diceva Angiolo (e spero di sintetizzare non troppo scorrettamente): “Parliamoci chiaro: l’idea stessa di ‘Stati Uniti d’Europa e d’America’ ha senso, per me europeo, nella prospettiva di poter votare anche a Washington, e pure per l’elezione del Presidente”.
Dico subito che sono d’accordo, e che quella di Angiolo mi pare effettivamente una “provocazione”, ma nel senso che provoca una riflessione seria: sì, il percorso dovrebbe portarci proprio a qualcosa del genere.
D’altra parte, è pur vero -e penso che Angiolo converrà- che tutto ciò non appartiene né al presente né ad un futuro prossimo: non solo per -diciamo- l’indisponibilità di “questa” America rispetto a “questa” Europa, ma anche per una elementare mancanza di reciprocità. In altre parole, anche volendo, per cosa faremmo votare, in Europa, un americano? Ed è un autentico dramma -ci verrò- che sta tutto nell’infelice (quanto rivelatoria!) battuta di qualche mese fa di Giulio Tremonti: “No a Bruxelles come Washington”. Quello che questi signori non vogliono non è il mitico “Super-stato” europeo (che non si sa cosa sia), ma un vero governo federale secondo il modello americano.

Ma non divago e torno all’oggi. A me pare che, se quella di “Stati Uniti d’Europa e d’America” è una proposta politica che rivolgiamo ad alcuni interlocutori (ad esempio, alle altre forze politiche europee che contatteremo, in base a ciò che ci siamo detti, anche -e non solo- al Congresso di Radicali italiani), il primo elemento di questa proposta deve essere che quelli “che ci stanno” possono (o devono) far proprio il duplice progetto di Organizzazione Mondiale della Democrazia e di automonitoraggio delle democrazie occidentali.

Mi è capitato di sottolinearlo in alcune circostanze. Non so quanto noi stessi siamo oggi in grado di apprezzare il peso, la consistenza dell’iniziativa radicale sull’OMD: a me pare un evento storico, che (scomodo categorie non necessariamente gradite alla nostra tradizione, diciamo così) conduce a “sintesi” e perfino a “sistemazione” il pensiero-azione radicale di questi decenni.
In questa battaglia c’è tutto: c’è l’appello dei Nobel sulla fame nel mondo; c’è il diritto-dovere di ingerenza; c’è la “nostra” ex-Jugoslavia; c’è -come base costante- la costruzione e insieme la difesa del diritto, del rule of law. Così come c’è perfino (se è consentito dirlo) il Tucidide del governo dei “molti” e non dei “pochi”.
Proprio mentre il binomio libertà-democrazia vive un momento critico (cioè, letteralmente, di giudizio, di decisione: può espandersi o invece essere reputato sconveniente dallo stesso Occidente, premiando scorciatoie di altro tipo -e credo di sapere che il prof. Ainis stia per pubblicare un libro importante proprio su questa “krisis”-); proprio mentre una parte consistente del pianeta rischia ancora per molto di non conoscerne neppure l’esistenza, prima del suo possibile funzionamento; e proprio mentre l’altra (la nostra, l’Occidente avanzato, pressoché senza eccezioni) già vive o incuba un serio rischio oligarchico, ademocratico; proprio mentre accade tutto questo, i radicali decidono di puntarvi, di scommetterci sopra.
In fondo (con tutti i rischi meccanicistici che ciò comporta, e che credo di avere presenti), non siamo lontani dall’atteggiamento e dalle scelte di fondo di un liberal-liberista rispetto all’economia: la sua prima carta, la sua prima scelta è sempre “inserire più libertà nel sistema”. Lo stesso vale, su un piano più generale, per questo nostro progetto: “inserire nel sistema globale più libertà e più democrazia”, che rappresentano -secondo la felice immagine di Marco- poco più o poco meno di un “vagito della storia”, o di un “battito di ciglia” nei millenni della storia umana.

Da questo punto di vista, mi pare assolutamente da recuperare il bel saggio di Amartya Sen sulle “radici della democrazia” recentemente pubblicato da “The New Republic”, e poi commentato in Italia -da par suo- da Adriano Sofri. Anche qui, è il caso di dire che un radicale “gioca in casa”, sente che il linguaggio è comune.
Sen contesta per un verso la presunta titolarità esclusiva della democrazia da parte dell’Occidente (e quindi la sua natura di “bene da esportazione”), e per altro verso la riduzione di tutto alla pura e semplice convocazione di elezioni, che pure è fondamentale, com’è ovvio.
Siamo assai vicini alle nostre elaborazioni, a quanto in particolare Marco ed Emma continuano a proporre sull’”abbattimento degli ostacoli al diritto individuale alla libertà e alla democrazia”. E siamo lontanissimi, per capirci, dall’approccio un po’ alle vongole o ai quattro formaggi -sia consentito dirlo- del Presidente del Consiglio italiano, che (per la quarta volta consecutiva, l’altro giorno sul New York Times, e salvo poi correggersi ieri “copiando e incollando” male altre nostre tesi) non solo ha parlato di “Comunità delle democrazie” senza citare la fonte, diciamo così, ma riducendola al meccanismo per cui, se c’è un dittatore, prima lo si minaccia, e poi lo si picchia (anzi, lo picchia il fratello americano, che è più grosso, mentre noi siamo gracilini). Siamo alla trasposizione su scala internazionale del “t’aspetto fuori”, che va bene -forse- per le liti in quarta elementare, ma funziona meno -temo- in contesti un po’ più articolati e complessi…
E siamo lontani -anche-, e lo dico citando una persona cara, dal modo in cui Luigi De Marchi (o il Berlusconi di ieri che smentisce il NYT) parla di un’idea che pure abbiamo in comune, e cioè l’uso globale dei media, delle “bombe dell’informazione”. Il problema non è quello di avere radio dove possano parlare agli arabi De Marchi e Berlusconi (con gli effetti devastanti che ciascuno immagina…), ma quello di costruire strumenti a disposizione delle forze democratiche che quasi dappertutto esistono, e che chiedono solo di essere sostenute e messe in condizione di potere -loro!- parlare ed agire. Non (lo ripeto ancora) che vi siano trasmissioni di “propaganda” occidentale, come dice il nostro Premier.

Ma, come accennavo, la campagna per l’Organizzazione Mondiale della Democrazia ha un pendant logico, che è rappresentato dall’automonitoraggio delle democrazie occidentali: per un verso, insomma, la promozione globale della democrazia; e per altro verso, la sua manutenzione dove si presume che essa esista già. Radicali italiani è al lavoro per consentire al primo Comitato di gennaio, che sarà presto convocato, di compiere passi che spero adeguati, anche rispetto alla prossima scadenza elettorale; ma, più complessivamente, non sarebbe male se quei “democracy caucus”, quei gruppi democratici che vorremmo si formassero dentro l’Onu potessero occuparsi anche si questo: di lavorare -cioè- alla fissazione di punti, di standard che i “membri del club” si impegnano a rispettare. E’, può essere questa l’arma di autoprotezione di cui le democrazie occidentali hanno sempre maggiore bisogno.


2. Le attuali tendenze oligarchiche delle società occidentali

In questo senso, chi voglia scattare -oggi- una fotografia critica, o addirittura impietosa, delle società occidentali non può prescindere dall’esaminare un rischio oligarchico, una tendenza -che c’è: è indubitabile- al restringimento del campo in cui “si prendono le decisioni”.
E’ -e vale per l’intero mondo avanzato- la vittoria postuma di Sparta su Atene, di un sistema più “chiuso” rispetto alla speranza “democratica integrale”. Ed è anche -su un piano diverso- un colpo di coda del giacobinismo (così capace di alimentare il filone leninista rivoluzionario, ma anche l’insorgere della malapianta statalista). Tenendo presente che il connotato del giacobinismo è certo il richiamo alla sovranità popolare, ma soprattutto la fiducia in una élite chiamata a condurre per mano gli altri, quasi pedagogicamente, e a plasmare -così- il proprio tempo e la propria società.

Ora, le cose sono molto diverse tra loro, ma forse possono essere affrontate insieme, perché segnalano un vizio comune, sia pure con graduazioni di gravità che mi paiono differenti.
Penso al ruolo delle “dinastie”, che -tanto sul lato democratico quanto su quello repubblicano-, sembrano avere un peso così forte nella stessa democrazia americana. Penso, sempre rispetto agli Stati Uniti, alla vera e propria “sparizione televisiva” dei “terzi candidati” alle ultime elezioni presidenziali. Quanto meno -in compenso- è invece un fatto incontestabile che, da Soros a Gore Vidal, passando per tanta produzione saggistica o cinematografica, gli Usa si confermino capaci di produrre e valorizzare voci “diverse”, dissonanti: e non è cosa di poco conto.

Quanto all’Europa, la malattia oligarchica mi pare ben più di un rischio: è una certezza acquisita. Ho già parlato molte volte del modo stesso in cui ha lavorato la Convenzione europea, cioè del tutto al di fuori di qualunque possibilità -starei per dire- di “interferenza democratica”. Per carità di patria, anche rispetto al nostro dibattito interno, alla luce delle ultime penose dichiarazioni di Giscard d’Estaing e di Franco Frattini, non affronterò l’argomento.
Ma ormai, anche al di là del suo mostriciattolo costituzionale, l’Europa si è abituata a vivere secondo criteri tecnicamente a-democratici. Il Parlamento europeo, unico organo scelto direttamente dai cittadini, è svuotato di reali competenze, e tutte le decisioni più rilevanti (a cominciare dalla realizzazione dei principali atti normativi) vengono prese senza alcuna forma di controllo democratico, essendo in genere affidate alle scelte dei rappresentanti ministeriali in riunioni -riservate, non pubbliche- del Consiglio dell’Unione Europea. Così, l’unica sede di dibattito politico è virtuale, mentre i luoghi della decisione sono estranei e inaccessibili a qualunque possibilità di verifica -o, ripeto, di interferenza- dei cittadini. Si giunge al paradosso, come è stato autorevolmente sottolineato, che se l’Unione Europea chiedesse di potere entrare…nell’Unione Europea, risulterebbe priva dei requisiti essenziali che essa stessa pretende rispetto ai paesi candidati a fruire del cosiddetto “allargamento”. E, di fatto, la “finestra” europea diviene il varco attraverso il quale far passare misure che non potrebbero superare la “porta” dei sistemi politici nazionali, e che anzi, se adottate in quella forma in ciascun paese membro, sarebbero considerate letteralmente eversive: sono così in via di solidificazione forme di cooperazione poliziesca e giudiziaria prive di qualunque avallo o verifica democratica, ex ante o ex post. E se a questo si aggiunge, su un piano ancora diverso, il recente rilancio (franco-tedesco-belga) di un progetto di “esercito europeo” (ipotesi di per sé positiva, magari, anche se gravemente tardiva) al di fuori di qualunque cornice di piena unità politica, il quadro si fa completo: nasce l’Europa dei poliziotti, dei procuratori, dei generali, della non-democrazia e del non-diritto.

In Italia, poi, il grigio stinge addirittura nel nero. Tralascio tutto ciò che ci è o dovrebbe esserci ben noto, a partire dall’impossibilità di una comunicazione politica degna di questo nome.
Ma, per restare sul registro della “stretta oligarchica”, pensate solo agli effetti perversi di una legge elettorale imbastardita come il Mattarellum. Secondo i dati diffusi dal Censis dopo le politiche del 2001, il 90% degli elettori ignorava il nome del candidato eletto nel proprio collegio uninominale. Il meccanismo è tale per cui (esattamente all’opposto del sistema inglese), il candidato Tizio non deve “curarsi” il collegio, ma deve “curarsi” il Segretario del proprio partito, affinché anche la volta prossima gli assegni un collegio “buono”: che poi sia a Trento o a Lecce, importa poco.
Anche in questo campo, poi, non mancano i perfezionisti, i virtuosi. Vi invito a riflettere, ad esempio, sulla battuta con cui Silvio Berlusconi ha proposto l’abolizione delle preferenze per le prossime elezioni europee: “Se no, con le preferenze, gli elettori scelgono…”. Non aggiungo commenti.

E’ difficile capire quali possano essere gli antidoti rispetto a questa chiusura oligarchica. Io ne vedo altri due, oltre al fondamentale automonitoraggio delle democrazie, di cui ho già parlato.
Per un verso, ed è cosa su cui interverrà Marco Cappato, la nostra proposta di e-democracy (e non di e-government): non a caso, da noi sempre presentata in chiave di recupero dell’essenza dell’Agorà ateniese, o -se si preferisce- del rovesciamento del mito negativo del Grande Fratello, trasformando i cittadini in attrezzatissimi Piccoli Fratelli in grado di controllare le scelte pubbliche.
Per altro verso, occorre tornare (nella politica mondiale, non lo fa più nessuno: gli ultimi dibattiti, anche teorici, risalgono alla prima metà, forse addirittura al primo quarto del secolo passato) ad una discussione sulle “regole”, sugli statuti dei partiti, sulle nuove forme in cui l’organizzazione può essere promotrice di libertà.
Come mi capita a volte di sottolineare, va affrontata e sconfitta una sensibilità che potremmo definire “anarchica” o anche in qualche modo “giusnaturalistica”, secondo la quale, con l’”organizzazione”, si negherebbe la libertà, o -quanto meno- un po’ di libertà. L’organizzazione rappresenterebbe, in altri termini, il prezzo, il costo in termini di libertà necessario per ottenere altri benefici: l’unità di un soggetto -appunto- organizzato, la comune sicurezza, ecc. Ed è questo il concetto con cui si apre la stragrande maggioranza dei manuali europei di diritto pubblico; peraltro, esistono, sull’argomento, volumi interi di storia della socialdemocrazia continentale; e perfino Nietzsche, su un altro piano, è sfiorato da questa tesi.
Chi parla è convinto del contrario: anzi, un simile modo di ragionare rischia di condurci dritti dritti verso una concezione tecnicamente fascista: quella per cui prima si organizza l’autorità, e -a partire da ciò- il resto. Tutto, così, diviene in qualche modo pubblicistico, e cioè organizzato entro il perimetro statale: il partito, il sindacato, e così via.
Ma non divaghiamo e torniamo al punto: io credo che l’organizzazione non costituisca una “deminutio”, un sacrificio, ma possa rappresentare un fattore di potenziamento, un modo di far vivere e di esaltare la libertà.
E, comunque la si pensi, occorre discutere con urgenza di questo (cioè di una nuova possibile stagione dei soggetti politici organizzati), pena la consegna di troppe decisioni a troppo pochi, in una logica sudamericana che vedrà sempre più trionfante il link tra i tecnocrati e la piazza gregaria, come massa di manovra.
3. Gli Stati nazionali contro i diritti e le libertà individuali

Certo, il nostro cammino è ostruito dalle carcasse degli Stati nazionali, già responsabili, negli ultimi secoli, di un numero spaventoso di lunghi e cruenti conflitti.
E in fondo, sta proprio qui l’intuizione più innovativa -secondo me- di Colorni, Rossi e Spinelli, con il loro Manifesto: cioè nella constatazione dell’incapacità degli “Stati-nazione” di essere contenitori -e quindi produttori, promotori- di libertà e di democrazia.

Per la verità, per alcuni decenni, pur tra difficoltà e contraddizioni, è in qualche modo cresciuta la speranza di una sempre maggiore erosione del potere degli Stati nazionali: verso l’”alto”, cioè a favore delle istituzioni sovranazionali; verso il “basso”, cioè a favore di più consistenti autonomie locali; e verso il mercato, e cioè attraverso tentativi più o meno timidi di privatizzazione. Oggi, però, questo processo vive una crisi profonda, a forte rischio di irreversibilità: o perché il cammino federalista viene frenato; o perché -quando invece procede, in Europa- avanza su strade che poco hanno a che fare con la direzione di marcia della libertà e della democrazia; o perché -nell’uno come nell’altro caso- tutto sembra inquinato o condizionato da una netta quanto infeconda ostilità antiamericana.

Come accennavo all’inizio, uno degli spauracchi che vengono più spesso agitati dagli antifederalisti è quello del Super-stato europeo. “Ma come -dicono ai federalisti-, voi siete contro il potere dei singoli Stati, e poi volete mettere in piedi un mastodonte burocratico ancora più spaventoso?”
Ci sarebbe subito un’obiezione da fare: e cioè che -semmai- se si esamina la storia moderna e contemporanea dell’Europa, la crescita dei livelli di burocrazia e di interferenza pubblica nella vita dei cittadini è stata sempre direttamente proporzionale proprio al rafforzamento degli Stati-nazione, e quindi alla espropriazione di competenze proprie dei piani più “bassi” di decisione e di governo.
Ma il punto più importante non è questo. Quel che conta è che ciò che importa almeno a noi radicali non è certo la creazione di un Super-stato, quanto piuttosto (esattamente sul modello americano: e proprio con gli Usa, poi, ci si dovrebbe coordinare, nella logica degli Stati Uniti d’Europa e d’America) di un vero e proprio Governo federale.
Mi spiego. Gli Stati Uniti non hanno alcun Super-stato: sono 50 Stati che hanno un Governo federale, a cui sono affidate alcune competenze generali (appunto, federali). Poi (e questa è cosa nota anche a chi vede i telefilm, e quindi anche a buona parte del ceto politico italiano), tutto il sistema è fatto di equilibri, di pesi e contrappesi, e anche di scontri, magari: per stare bassi, e quindi ai telefilm, ad esempio, si pensi ai “conflitti” tra il funzionario dell’FBI e lo sceriffo locale…
Il guaio vero è che in troppi non vogliono questa dialettica, questo scenario. Come accennavo prima, è stata rivelatrice, qualche mese fa, una battuta di Giulio Tremonti (la ripeto: “No a Bruxelles come Washington”), che va messa insieme alle reiterate dichiarazioni a difesa dell’idea di Stato-nazione, ad una lunga e convinta militanza proporzionalista e antimaggioritaria, e ad una assai discussa sortita sull’esigenza di una stagione di “neo-colbertismo”, cioè di rinnovata presenza pubblica nell’economia. Tutto si tiene, verrebbe da dire: con le pulsioni neonazionaliste e antiamericane che sconfinano nell’antiliberalismo e nell’antiliberismo.

Ed è qui, come si vede, che comincia a farsi forte la dicotomia tra Stati Uniti ed Europa. E non a caso, infatti, quello americano è un modello che ha al centro l’individuo (con il “Bill of rights”), mentre qui continua a prevalere (pensate ancora alla Convenzione europea) l’idea dell’intesa tra Stati nazionali. E non a caso, come fa notare ancora Angiolo, non c’è alcun diritto di cittadinanza europea; così come (e ce lo spiega Nicola Dell’Arciprete) non c’è neppure alcuna possibilità di associazione europea. Né l’individuo, dunque, né la persona, intesa come centro di relazioni e di rapporti, possono sperare -per ora- di trovare uno spazio nella dimensione europea e -ancor più- di dimensione europea.

Come uscirne? A me pare che abbia ancora una volta ragione Milton Friedman: “Le vie di mezzo -ha detto la scorsa settimana a Mario Platero de “Il Sole 24 ore”- non servono a nulla: se si vuole l’Europa, che si vada fino in fondo, che si faccia l’unione politica; altrimenti, è meglio che ogni singola nazione si gestisca da sé”.


4. I modelli anglosassoni contro quelli continentali

Non c’è dubbio: ci siamo avvicinati ad uno degli snodi cruciali. Siamo giunti -cioè- al confronto tra il modello anglosassone (o i modelli anglosassoni) e quello continentale.

Non è solo questione di sistemi elettorali e istituzionali (cose pur rilevantissime). C’è molto, molto di più. A cominciare dall’abisso che separa la Rivoluzione americana da quella francese: da una parte, un evento decisivo per la filosofia pubblica liberale, tutto orientato sulla libertà come valore fondante della vita e delle costruzioni umane; dall’altro, una rivoluzione giacobina, tutta centrata sul miti dell’uguaglianza e dello Stato.
Due personalità assai diverse tra loro come Francois Furet e Gianni Baget Bozzo convergono su domande che mi paiono assai acute, e non solo -o non necessariamente- polemiche: siamo sicuri che le due Rivoluzioni siano catalogabili sotto la stessa voce? Il fatto che la Rivoluzione russa del 1917 si sia presentata come lo sviluppo, la conseguenza di quella francese del 1789 non ci induce a qualche riflessione? Possiamo davvero considerare “rivoluzionarie” nello stesso modo e nello stesso senso la Dichiarazione d’indipendenza americana e la Dichiarazione della prima costituente francese? A me non pare.

Ma scendiamo di livello, e spostiamoci dalla grande storia alla cronaca politica dei nostri giorni. A me sembra che sia un indubbio merito di Silvio Berlusconi l’avere spostato l’asse della politica internazionale italiana da Parigi e Berlino verso Londra e Washington.
Ma -ciò detto-, in mezzo a tutti questi “Caro George e caro Tony” (e devo confessare che queste ostentate familiarità mi fanno pensare a come Leonardo Sciascia ricostruiva l’incontro tra Voltaire e Casanova: con quest’ultimo che riteneva di avere impressionato il francese, mentre Voltaire annotava nelle sue memorie che era passato dalle sue parti un buffo italiano…), perché non c’è mai un riferimento al modello elettorale e istituzionale dell’Inghilterra o degli Stati Uniti? Perché ci si racconta che quelli sono i nostri amici, i nostri alleati, i nostri riferimenti, salvo non prendere neppure in lontanissima considerazione l’ipotesi di imitarli sul piano della forma di stato e di governo?

Io credo che siano necessarie molte riflessioni, anche retrospettive. C’è -nella storia europea- un filo che unisce le scelte proporzionaliste ai cedimenti, agli “allentamenti” democratici; c’è -ancora- una tendenza dell’Europa antiamericana degli anni Trenta a considerare il Regno Unito come una disprezzabile (in quanto “perfida”) propaggine degli Stati Uniti, tendenza che sembra ripetersi perfino oggi, quando si descrive Blair come il cagnolino di Bush. E -per quanto ci riguarda più da vicino- c’è una continuità profonda tra la veemenza con cui i radicali proponevano l’adozione del modello anglosassone, dopo il 1989, ai Paesi dell’ex blocco sovietico, e la critica che muoviamo oggi agli amici americani, per avere -nel nuovo Consiglio iracheno- fatto prevalere una logica di “rappresentanza” delle etnie, delle fazioni.

Su un piano ancora diverso, da un lato molti interventi di Emma, e dall’altro un bel “survey” del Financial Times hanno illuminato, ad esempio, alcuni progressi certi di determinate realtà africane (Emma ha individuato, qua e là, anche -magari timidi- annunci di “primavera”). Su queste basi, mi pare felice l’osservazione che mi ripeteva qualche giorno fa Nicola Dell’Arciprete, distinguendo la sorte dei paesi che hanno conosciuto la presenza britannica, dalle condizioni molto più negative di quelli che hanno subito la colonizzazione belga o francese, e che poi hanno vissuto un certo -e io dico: conseguente- tipo di “liberazione”.

Mutatis mutandis, significherà pure qualcosa, in questo senso, l’avventura di Gandhi (con i suoi anni inglesi, tra l’altro, oltre al suo essere avvocato): avere un avversario democratico consente di avere -con più facilità, direi- un fine democratico, e -per raggiungere quell’obiettivo- di scegliere mezzi nonviolenti.

Per tutte queste ragioni, la nostra proposta politica sugli “Stati Uniti d’Europa e d’America” non potrà fare a meno di segnalare agli interlocutori che troveremo come letteralmente decisiva l’opzione “anglosassone”. In Italia, ad esempio, molti ragionano sul sistema elettorale proporzionale -in termini di bottega- come lo strumento migliore per rientrare o restare più facilmente nelle istituzioni: ma non si rendono conto del fatto che, da quel calcolo, passa molto di più. Passa la costruzione (o no) di una società diversa da quella conosciuta nell’Europa continentale, che -sul piano istituzionale, su quello economico, su quello giuridico, sul piano della creazione di individui e comunità liberi, responsabili e creativi- ha fornito prove incomparabilmente migliori.


5. Libera circolazione delle persone: società aperte (anche) perché multirazziali

Un punto qualificante del lavoro politico sul progetto di “Stati Uniti d’Europa e d’America” dovrebbe poi essere rappresentato, a mio avviso, dal fare di questa alleanza di “willing”, di “like minded”, di volenterosi, anche un’area geografica e politica aperta alla libera circolazione delle persone.

Antonio Martino ricorda spesso come, verso la metà del diciannovesimo secolo, l’America e l’Australia non fossero troppo dissimili né per ricchezza né per popolazione. Poi, però, gli Stati Uniti, diversamente dagli australiani, scelsero di aprire molto le frontiere: e ne è derivata una crescita straordinaria, di abitanti come di ricchezza prodotta.

Oggi, la storia continua, e gli Usa rappresentano uno straordinario, spettacolare laboratorio, che va illustrato non a parole ma ricorrendo ad alcune cifre.
Sono più di 6 milioni i cittadini statunitensi che, nell’ultimo censimento del 2002, si sono dichiarati discendenti “da più di una razza”, e si cominciano a leggere saggi sulla “m-generation”, cioè sulla “generazione multirazziale”. In totale, sul territorio americano si contano 123 diverse etnie. I figli di etnie differenti saranno il triplo nel 2050, secondo il National Council of Research, e, tra 100 anni, rappresenteranno oltre la metà (alcune stime predicono: i due terzi) di tutta la popolazione. Intanto, dal 1967, quando la Corte suprema depenalizzò le unioni miste nei pochi Stati che ancora le vietavano, il numero dei matrimoni misti è cresciuto del 1000%.

Come si vede, siamo piuttosto lontani dalle dissertazioni di un Ministro della Repubblica italiana su “Bingo Bongo”: credo -anzi- che la distanza tra questa battuta da trivio di Umberto Bossi e quella realtà misuri, dia il segno della misera condizione del nostro sventurato Paese.

Il fatto è che, mentre qui si discute di questo (o anche, consentitemi, della furba e inutile proposta di Fini sul voto amministrativo agli immigrati: alzi la mano chi conosce un solo immigrato che, anziché desiderare di divenire presto un cittadino come gli altri, sia ansioso di poter votare per i Consigli comunali e provinciali…), lì si è anni luce avanti.
Nelle ultime elezioni californiane (quelle che hanno visto la vittoria di Schwarzenegger: cioè, vale la pena di ricordarlo, di uno che oggi è conosciuto come “Terminator”, ma che trent’anni fa arrivò da immigrato, con non più di venti dollari in tasca), la scheda elettorale è stata stampata in 7 lingue diverse, mentre, per chi non lo sa ancora, il sito ufficiale della Casa Bianca, www.whitehouse.gov, è già bilingue, inglese e spagnolo. Per non parlare di un Ministro degli Esteri come Colin Powell, anch’egli figlio di immigrati.

E le cose, anche politicamente, non sono mai scontate. Parlando degli ispanici, ad esempio, un tempo si trattava di voti “sicuri” per i democratici; oggi, che si tratti della California (con Schwarzenegger che batte, tra gli altri, anche un candidato democratico di origini ispaniche) o della Florida di Jeb Bush, molto spesso si sono registrati massicci spostamenti di voti verso i repubblicani.

E’ l’ora, mi pare, che anche da queste parti ci si cominci a misurare con problemi -e opportunità- di questo genere.


6. Laicità degli ordinamenti (anche) per le libertà religiose e di coscienza

Un altro profilo qualificante della nostra chiamata a raccolta di energie e disponibilità sul progetto di “Stati Uniti d’Europa e d’America” è rappresentato dalla battaglia per la laicità degli ordinamenti giuridici (e quindi anche della strumentazione giuridica della possibile nuova “realtà” istituzionale che immaginiamo).

Esattamente come dicevo prima per la democrazia (sua promozione globale, e, contemporaneamente, sua difesa dove si presume che essa esista di già), anche su questo piano la lotta deve essere duplice.
Da un lato c’è l’impegno contro quelle che Michael Ledeen insiste giustamente a chiamare “mullahcrazie”; ma dall’altro -pur in forme e modi certamente assai diversi- la questione si pone anche per le società occidentali. E’ necessario che gli Stati non si intromettano nelle scelte confessionali; ma insieme, è necessario che le Chiese non si intromettano nelle scelte normative e legislative degli Stati: la laicità degli ordinamenti, la distinzione tra “peccato” e “reato”, tra “norma morale” e “norma giuridica”, rappresentano la migliore difesa possibile anche per la libertà religiosa.
In particolare, la Chiesa cattolica ha il pieno diritto di diffondere i suoi messaggi, la sua parola: questo diritto va difeso, e sino in fondo. Ma, da un lato, occorre che i responsabili politici non consentano alle legittime convinzioni morali di alcuni di tradursi in imposizione o in proibizione per tutti gli altri; e, dall’altro, va rivendicato il diritto dei laici, dei liberali, degli antifondamentalisti, di denunciare che il risultato concreto di alcune delle politiche proposte dalle gerarchie vaticane sarebbe quello di proibire terapie e di imporre sofferenze, di edificare morte e non vita, pur in nome della Salvezza eterna.
E’ giunto il momento -con rispetto, ma il rispetto richiede spirito di verità- di onorare fino in fondo la piena politicità delle proposte della Chiesa cattolica: la loro legittimità è ovviamente fuori discussione, ma fuori discussione è anche l’opportunità di un leale scontro in campo aperto.

In questa nuova battaglia, che deve misurarsi con l’insidia di chi propone il metodo concordatario (e cioè, insieme, la parastatalizzazione delle chiese e la clericalizzazione degli Stati), vanno rilanciate soluzioni opposte al “cuius regio, eius religio” cui alcuni sembrano voler tornare. La libertà religiosa non è affare dei sovrani o degli Stati, ma è questione che riguarda le coscienze degli individui, che come tali devono essere trattati dagli ordinamenti giuridici, a prescindere dalle appartenenze (o non appartenenze) religiose.

Anche in questo caso, un riferimento può essere offerto dagli Stati Uniti. In un recente e significativo saggio del professor Laurence Moore (“Touchdown Jesus. The mixing of sacred and secular in American History”), si mette in luce la bella contraddizione di un sistema che è assolutamente laico, e che -quindi- non soffre del fatto che nessun Presidente americano abbia osato non mettersi sotto la protezione di Dio. Per fare un solo esempio, la frase: “Non potrei fare il Presidente degli Stati Uniti, né tantomeno continuare a crescere come persona senza la mia fede in Dio” non è stata pronunciata da George W. Bush, ma dal
“dissoluto” Bill Clinton. In altre parole, ci sarà pure scritto da tutte le parti (banconote incluse) “In God we trust”, ma nessuno pensa di mettere in dubbio la separazione tra Stato e Chiese. E così, la religione può anche essere (per chi crede) uno dei fattori di unità civile, e non, come accade invece a queste latitudini, sia per i credenti sia per i laici, un fattore di divisione e di sopraffazione.


Conclusioni


In conclusione, mi pare che la strada -la strada del “da farsi”- sia tracciata con una certa chiarezza.

Occorre -su queste ed altre basi- cercare interlocuzioni politiche ed istituzionali, sperando di trovare risposte interessanti, cioè interessate al progetto. Essendo consapevoli, come dicevo all’inizio, che ci è negato l’elemento essenziale della comunicabilità di questa nostra ipotesi, e quindi di una “fusione a caldo”.

Bisogna tentare, però, e sorprese possono giungere -a mio avviso- non solo da interlocutori europei e statunitensi, ma anche da sponde canadesi, o israeliane, o turche, per citare tre realtà tutt’altro che estranee al progetto di “Stati Uniti d’Europa e d’America”.

Certo, siamo consapevoli, come non cessa di scrivere André Glucksmann, di vivere un tempo difficile, il tempo dell’oscuro, dell’invisibile, dell’inatteso. In fondo, i decenni della Guerra Fredda consentivano una facile e ”statica” individuazione del “nemico”: opportunità che, dopo l’11 settembre, è tragicamente negata. E, ci avverte ancora Glucksmann, che ha il coraggio di essere urticante, questi sono senz’altro tempi di guerra. “Tanti di quelli che dicono che non bisogna fare la guerra, vogliono al massimo farsi un tè. Credono che basti dire ‘no alla guerra’ per esserne al riparo. Gli europei non la vogliono sentir nominare, ma la guerra è là, non ha mai lasciato il nostro orizzonte, e bisogna saperla guardare negli occhi”.

Eppure, sapendo tutto ciò, la nostra sfida è quella -proprio in un tempo come questo descritto da Glucksmann- di far fiorire una risposta diversa, anche nonviolenta.
Gli “Stati Uniti d’Europa e d’America” per un’”Organizzazione Mondiale della Democrazia” sono parte importante di questo tentativo. Sta a noi proseguire la ricerca, secondo un procedimento empirico, popperianamente falsificabile, che coincide con l’adagio radicale del “millimetro al giorno nella direzione giusta”.

In fondo, mentre in Italia molti parlano di “cesure”, di “discontinuità”, di “abbandono della casa del padre”, e quindi di nuovi averi, di nuove “case” (sperabilmente, non abusive…), a noi si attaglia di più qualcosa che ha a che fare con l’”essere” e con la “continuità”, e quindi non una “casa”, quanto piuttosto un cammino, un percorso da proseguire.

E’ questo, mi pare, il senso degli anni che abbiamo alle spalle, e -spero- di quelli che avremo davanti.
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BRUXELLES, 7 DECEMBRE 2002: Recontre Radical Europeen. Relation de Daniele Capezzone. «Abattre dans le monde entier les obstacles au droit individuel et à la démocratie»
THE UNITED STATES OF EUROPE AND OF AMERICA Removing barriers throughout the world to the individual’s right to freedom and democracy