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07/12/2003 | Bruxelles, 7 dicembre 2003. Conegno Radicale Europeo. Relazione di Angiolo Bandinelli: «Riforma e controriforma dell'Europa»

DA VENTOTENE ALLA CONVENTION
Riforma e controriforma dell'Europa


di Angiolo Bandinelli

Bruxelles, 7 dicembre 2003





Quanto è accaduto con la faccenda Ecofin o accadrà tra pochi giorni con la Convention - se verrà approvata, modificata, rinviata, ecc. - illumina di una luce abbagliante mezzo secolo di storia dell’unificazione europea. Si sono sempre applauditi i “realisti” – i sostenitori dei “piccoli passi” concreti, del funzionalismo, del primato dell’economia, ecc., rispetto agli “ideologi” , i “federalisti” alla Spinelli, gli ideologi e gli utopisti, ecc. A me pare che questa interpretazione della storia sia interessata e tendenziosa. E comunque, alla lunga, si è dimostrata fallimentare, se è vero che l’Europa oggi si trova di nuovo, sicuramente grazie a quel realismo, bloccata in un drammatico “inverno istituzionale”. Non è il primo, ma potrebbe essere l’ultimo, e definitivo. In una nostra precedente riunione, qui a Bruxelles, fu fatta una lettura comparata del documento con il quale Spinelli rilanciava, nel 1984, le tesi “federaliste”, e della Convention di oggi: si rilevò che i due testi erano in fondo vicini - persino nel linguaggio - e che dunque i federalisti spinelliani sbagliano a criticare la Convention e a respingerla. Bisogna – fu detto - approvare questo documento. Non è entusiasmante. ma è concreto e affidabile. Io osservai che i due documenti andavano valutati con occhio storicamente diversificato. L’ Europa del documento Spinelli era l’Europa di prima della caduta del muro di Berlino (1989), chiusa e paga dell’ombrello (per la verità, un po’ obbligato) americano, garante per il “containment” - non con la guerra preventiva ma per paziente forza di dissuasione - dell’Unione Sovietica. Oggi l’Europa è senza ombrelli. Viene strattonata da ogni parte perché assuma responsabilità sempre maggiori. E’ fatta oggetto di strali perché “venusiana”, imbelle, irresponsabile e vile, incapace di avere una voce, una iniziativa, un ruolo in mondo incerto, senza guida, lacerato tra spinte – centrifughe - prima ancora che eversive.

Per rovesciare questa rappresentazione, l’Europa avrebbe urgente bisogno di una forte spinta innovativa, di una spallata radicale che le dia un’anima, una capacità di iniziativa per sottrarla alla condanna metternichiana di essere - al più - una espressione geografica. Come ha detto (ahimè!!!) Prodi, “senza riforme, l’Europa sparirà dalle mappe”. Qualcuno, anche oltreatlantico, ne gioirebbe. Noi, o meglio io, personalmente, no. Noi radicali siamo comunque qui - in questa nostra “due giorni” – per tentare di promuovere un forte movimento “per gli Stati Uniti d’America e d’Europa, per far crescere il diritto individuale alla libertà e alla democrazia”, per fronteggiare le crisi in corso - non solo in Europa. Se si vuole questo, la question préalable è che in Europa si realizzi un quadro di stabilità istituzionale, che l’Europa divenga un soggetto politico reale. Altrimenti il rischio è la satellizzazione rispetto a Washington: non dell’Europa, ma delle Europe, vecchie e nuove, nazione per nazione, est e ovest insieme.

Anche questa è una prospettiva possibile - perché no? - ma non garantisce il successo nemmeno di certe tesi americane che circolano in questi giorni. La signora Condoleeza Rice (ma non solo lei) vuole un mondo “multilaterale”, ma esclude categoricamente un mondo “multipolare”; lei lo vorrebbe - dietro a Fukuyama - “unipolare”. Purtroppo, il temuto mondo multipolare c’è già. C’è l’America da una parte, ma dall’altra c’è la Cina, e la Russia anche. Con incognite aggiuntive, dall’India a un Sudamerica non più così allineato dietro la dottrina di Monroe. E poi c’è l’Islam, dove l’Occidente non riesce a individuare interlocutori e percorsi validi allo sviluppo di una democrazia. E magari - ad accrescere il multipolarismo - c’è il papa, deciso a giocare una parte autonoma, un po’ doppiogiochista, nello scontro/confronto con il capitalismo ruggente. E c’è una incognita Africa, devastata da miseria e dall’aids ma proprio per questo forse destinata a diventare la miccia della destabilizzazione etica - se non politica - del secolo. Ci sono molti poli, insomma: solo l’Europa non c’è. Forse, anzi, non deve esserci. Però poi spunta l’Euro, che dà fastidio a qualcuno, e anche questo diventa un polo. ….

L’Europa - senza testa né muscoli - che ci viene consegnata dai neonazionalismi in agguato dietro la Convention , è anche l’Europa delle burocrazie. L’innologia antiburocratica ha i suoi turiboli anche tra noi. Così però si corre un rischio - un po’ stucchevole, di avvolgerci in un alibi per aver abbandonato l’Europa al tran tran delle cose scontate. L’Europa non è stata tra le nostre “priorità”. Forse, credo, ci si è cullati – come tutti, del resto - nell’illusione che le cosa sarebbero andate avanti - senza scossoni – all’infinito. Oggi, lo scossone - forse anche un terremoto - è arrivato, e anche noi ci ritroviamo in difficoltà.. Per degli spinelliani, c’è, o dovrebbe esserci, un po’ di senso di colpa. Gianfranco Dell’Alba, giorni fa, mi ha ricordato che Marco Pannella propose nel 1987 - rispondendo a Delors e al suo “Atto Unico Europeo”. - una “Costituente” -- Parlamento Europeo più Parlamenti nazionali -- per eleggere il Presidente della Commissione: (“d’impeto”, disse dell’Alba, in “una sorta di pallacorda”). Si sarebbe potuto insistere di più? Costruire qualche iniziativa attorno all’idea? Non sono in grado di giudicare. Oggi, ci ritroviamo a lamentarci dell’Europa delle burocrazie, l’Europa tecnocratica, antidemocratica, partitocratrica, dove partiti - “nazionali”, non “europei” - decidono – o almeno i due maggiori gruppi presenti a Bruxelles – strategie e soluzioni, avendo ridotto i loro stessi membri a parlamentari di secondo grado, con i loro dirigenti che devono passare prioritariamente il filtro delle burocrazie parlamentari. E’ l’Europa in cui – per capire a che punto siamo – il Parlamento elegge il Presidente della Commissione scegliendolo tra i due candidati proposti dall’onnipotente Consiglio. .. Ci si può stupire che questa Europa spossessata dei requisiti primi di una democrazia divenga poi l’Europa delle viltà, dell’irresponsabilità, succube di Francia e Germania, che giusto pochi giorni fa hanno rinnovato - dando vita ad una speciale “cooperazione rafforzata” - l’asse storico attorno al quale si è mossa l’Europa, provocando anche i tentativi di fuga in avanti del governo italiano? . Ha ragione Pannella e deplorare l’andazzo. Però non basta, per provare almeno a mutare le cose. Occorre se non ritornare, almeno ripensare a Spinelli e a Ventotene. Non come ad una astratta utopia, ma come ad un progetto politico epocale, di spessore fondante, come fu la scelta - geniale - degli hamiltoniani, quando trasformarono la confederazione dei 13 staterelli in un potente soggetto politico, gli USA. Attenzione! Niente superstato, ma governo di Stati: Una intuizione istituzionale tra le più felici della storia.

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“Nel tetro inverno ’40-’41 - ha scritto Spinelli - quando quasi tutta l’Europa continentale era stata soggiogata da Hitler, l’Italia di Mussolini ansimava al suo seguito, l’URSS stava digerendo il bottino che era riuscita ad afferrare, gli Stati Uniti erano ancora neutrali e l’Inghilterra sola resisteva trasfigurandosi agli occhi di tutti i democratici d’Europa in loro patria ideale, proposi a Ernesto Rossi di scrivere insieme un “Manifesto per un’Europa libera e unita”. Sei mesi dopo il Manifesto era pronto”; scritto, direbbe Berlusconi, in quell’amena isoletta dove il fascismo spediva in vacanza i suoi avversari, e dove erano tra gli altri Altiero Spinelli, appunto, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni. Spinelli era stato, da giovane, segretario della gioventù comunista per l’Italia centrale e all’età di venti anni era stato condannato a 16 anni e otto mesi (ne sconterà dieci); Ernesto Rossi aveva cospirato attivamente organizzando contro il fascismo azioni dirette, ingenuamente fantasiose e un po’ inutili, che pero’ gli costarono una condanna a - credo - 18 anni, ed Eugenio Colorni, un socialista intellettuale, filosofo, che sarebbe caduto a Roma, nel 1944, combattendo contro i tedeschi. Spinelli diventò la bestia nera degli ex compagni comunisti, che lo isolarono come un traditore, Rossi abbozzava saggi sull’economia della terza via tra capitalismo e comunismo, ecc. Il loro Manifesto, più citato che letto – non ne esiste nemmeno una edizione critica! - avanzava una ipotesti di fuoriuscita dal dramma delle guerre nazionali da cui era travagliato il continente, grazie all’unificazione del continente su istituzioni federali. Spinelli e Rossi presero spunto da pagine scritte da Luigi Einaudi sul Corriere della Sera nel 1918, in cui Einaudi criticava la Società delle Nazioni, giudicata incapace di assicurare un nuovo ordine politico internazionale, a differenza del sistema federale quale quello della Convenzione di Filadelfia del 1787. Enaudi mandò loro alcuni volumi della letteratura federalista inglese fiorita sul finire degli anni ’30, tra i quali “The economic causes of the war”, di Lionel Robbins, con le critiche del pervertimento politico ed economico cui porta il nazionalismo.

Il Manifesto era innanzitutto un documento politico - non “culturale”. Non si occupava dell’identità europea, né delle sue radici, cristiane o meno, non faceva riferimento a Carlomagno. Indicava un processo politico, da condursi con strumenti politici. Affermava - altra novità - che la lotta per l’unità europea avrebbe creato un nuovo spartiacque tra le correnti e i partiti politici. La divisione tra progressisti e reazionari sarebbe passata non più lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, dell’attenzione al sociale, ecc., ma lungo la linea che avrebbe separati quelli che si muovevano nello scenario nazionale e quelli che avrebbero lottato per la creazione di uno stato inter- o sopranazionale. A mio avviso, è una scoperta che regge ancora, una cosa fondamentale. Però, tra tante rievocazioni della Resistenza, abiure dal fascismo, dell’antisemitismo, ecc., non uno ricorda che il Manifesto fu il prodotto politico più avanzato della resistenza europea. Cercava di battere in breccia il fascismo e il nazismo, ma anche lq Frqnciq di Vichy. Già lottava contro l’Europa culla dei fascismi denunciata da Pannella.

Scampato da Ventotene, Spinelli fondava a Milano, nel ‘43, il Movimento federalista europeo. Pensava, giustamente (la cosa ci interessa anche oggi) che per condurre una lotta a livello europeo fosse necessario un partito europeo. Rifugiatosi in Svizzera, creava i primi collegamenti transnazionali: una conferenza europea, ancora clandestina, venne organizzata a Parigi nel ‘45. Partecipavano Albert Camus, Emmanuel Mounier, George Orwell, ecc. Nel ‘46, Spinelli scriveva un articolo, “Dawn or dusk of democracy” pubblicato sulla rivista newyorkese “Social Research” (non era una rivista neocons) , in cui anticipava il Piano Marshall, l’iniezione di capitali americani che consentì la ricostruzione europea. Scrisse Spinelli: “Ancora una volta il punto politicamente decisivo …si trova negli Stati Uniti d’America… gli USA sono oggi il paese più potente del mondo, e tuttavia il più male attrezzato per condurre una politica di potenza, cioè di totalitarismo interno e di conquista imperiale estera. …La loro struttura, i loro interessi economici mondiali, il desiderio di mantenere la loro potenza, la loro mentalità, cospirano nel senso di favorire ovunque i tipi di civiltà aperta, cioè quelli in cui lo Stato non assorba e controlli tutta la società”. E l’inizio reale della lotta politica federalista comincia proprio quando - giugno ‘47 - il segretario di Stato americano George Marshall lanciava il suo piano, affermando che esso avrebbe avuto successo solo se fosse stato gestito dagli europei, dall’”accordo di un certo numero di paesi europei”. Il disegno di Marshall fallì, per l’incomprensione degli Stati europei, e per l’ostilità inglese, del laburista Tony Blair - scusate, Bevin, Ernst Bevin. E tuttavia, nel maggio 1950, Robèrt Schumàn lanciava un grande progetto di unificazione: l’Europa non potrà farsi in una sola volta - scrisse - né sarà costruita tutta assieme, ma sorgerà da realizzazioni concrete che creino innanzitutto una solidarietà di fatto…” Nasceva, con il Trattato di Parigi del ‘51/’52, la CECA, la Comunità Europea per la coproduzione franco-tedesca - già allora il nocciolo dell’Europa - del carbone e dell’acciaio, posta sotto un’Alta Autorità che assumesse decisioni vincolanti per i contraenti.

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Pochissimi giorni dopo la firma dl trattato scoppiava la guerra di Corea. La frizione tra paesi comunisti e democrazie, soprattutto l’America, saliva a livelli mai visti. L’America avanzava proposte per il riarmo della Germania; il primo ministro francese Pleven lanciava allora il progetto della Comunità Europea di Difesa, la CED. Spinelli scrisse: “L’Europa democratica va difesa, e va difesa come un tutto…” E poi: “Gli accordi per l’esercito europeo devono essere accompagnati da accordi per l’unificazione federale...La tensione tra America e Russia ha
parecchie ragioni, ma la principale è l’impotenza e il caos europeo”… Ebbe l’appoggio di De Gasperi, che aveva assunto anche il ministero degli esteri, mentre l’olandese Spaak costituiva un Comitato di studi per la Costituente Europea (cui partecipò anche Calamdandrei) e un gruppo di professori di Harvard collaborò fornendo materiale vario. Nel 1951 si aveva il varo dell’Assemblea Costituente. Oltre a Schuman, De Gasperi, Adenauer, Spaak e Monnet, una spinta venne anche da Eisenhower, allora comandante supremo delle forza armate USA, che il 3 luglio ‘51, in un discorso a Londra sostenne la necessità di un’Europa Unita. Eisenhower incontrava a Roma, nella sede del Movimento federalista, Spinelli e altri federalisti…

Il 10 marzo ‘53 veniva votato a Strasburgo un progetto di Trattato-Costituzione. Ma il 5 marzo moriva Stalin e il 27 luglio la guerra di Corea terminava. La situazione cambiò. Scoppiava poi la questione di Trieste, con il riemergere del nazionalismo italiano, fomentato anche da comunisti e neutralisti, che facilitò l’involuzione neutralista e nazionalista della Francia (si parlò di “balcanizzazione dell’Europa”). L’Italia assumeva una posizione dilatoria, in Francia De Gaulle e il gen. Juin si schieravano contro. Il 10 agosto ‘54, il Partito Comunista Francese e il Rassemblement du Peuple Français di De Gaulle respingevano, all’Assemblea Nazionale, il progetto CED. Se la CED fosse nata, ci saremmo risparmiati probabilmente le battute di quanti hanno tacciato l’Europa di essere impregnata di molli spiriti venusiani. L’esercito europeo sarebbe stato un deterrente, non so se adeguato allo strapotere sovietico sull’Elba, ma un primo forte sbarramento difensivo. Sarebbe stato anche - fu la tesi dei federalisti italiani, di Rossi e Spinelli – il nucleo fondante di una unità politica federale supernazionale. I federalisti avevano chiaro che un esercito, una politica militare, non si fa se non si ha una politica dotata di una sola testa. Più o o meno quel che si può dire di una politica monetaria, finanziaria ed economica.

La Comunità Europea del carbone e dell’Acciaio - tanto cara ai “funzionalisti” - in realtà produsse una irreparabile rottura del principio della sovranità nazionale. Apriva una braccia che non si è più ricucita. Non è mai esistito un tranquillo funzionalismo che si muove incurante degli strilli dei federalisti. Lo scontro tra funzionalisti e federalisti c’è stato sempre, squisitamente politico. E se le ragioni funzionaliste sono apparse vincenti, la pressione dei federalisti sottende a molti dei passaggi fondamentali: per arrivare alla CECA, o a Maastricht, o all’Atto Unico o - oggi - alla Convention sono state sempre scatenanti le ragioni politiche, in momenti in cui le ragioni dei funzionalisti, dei cosiddetti realisti, mostravano la corda o rischiavano il fallimento. Del resto, lo stesso Monnet lasciò la guida dell’Alta Autorità della CECA -- all’indomani del fallimento della CED -- per capitanare il “Comitato per gli Stati Uniti d’Europa” e lanciare il progetto della Comunità Economica Europea. Possiamo dire che la vicenda dell’Europa unita sia stata segnata dallo scontro di tre soggetti: i federalisti politici, i funzionalisti e i politici antifederalisti, cioè i nazionalisti molto spesso, se non sempre, alleati con i funzionalisti per bloccare la spinta federalista.

Dopo la crisi della CED si cercò dunque di porre riparo al vuoto di istituzioni.. Nel 1957-‘58 viene firmato il Trattato di Roma, che istituiva la CEE, la Comunità Economica Europea Il trattato viene indicato come ulteriore prova della bontà del metodo funzionalista. In realtà fino alla metà degli anni ’70 si hanno fortissimi sviluppi politico-istituzionali centripeti, attraverso iniziative e scontri sui terreni giuridico-istituzionale o direttamente politico, che modificheranno profondamente il volto e le strutture della Comunità stessa. Molti avvengono ad opera di un soggetto istituzionale nuovo, la Corte di Giustizia - per ricordare come è complicata la macchina europea. Faccio solo un esempio, sui moltissimi possibili. Nel 1964 la Corte introduceva nell’ordinamento comunitario il principio di supremazia, per il quale una norma legislativa assunta in sede comunitaria aveva la precedenza istituzionale sulla norma nazionale. La Corte di Giustizia ha sviluppato una interpretazione talmente creativa del Trattato da essere paragonabile ad un organo che si percepisce come una Corte Costituzionale Nazionale. Un giurista avrebbe detto che la Comunità stava divenendo “sempre più come uno Stato federale, o almeno pre-federale” sul modello americano; un politologo avrebbe risposto invece: “Le due esperienze si stanno differenziando sempre più” E’ comprensibile. Da un punto di vista giuridico-normativo, la Comunità si sviluppava con un forte dinamismo intriso di sopranazionalità ; da un punto di vista politico, decisionale e procedurale, si veniva manifestando una tendenza contraria, a favore dell’approccio intergovernativo. Cioè, se il diritto comunitario e le politiche comunitarie diventavano sempre più obbliganti per i contraenti, gli Stati nazionali cominciarono a prendere il controllo del procedimento decisionale comunitario. Nel 1965 la Francia si opponeva all’entrata in vigore delle disposizioni del Trattato che avrebbero introdotto il voto a maggioranza al termine del periodo transitorio. La crisi fu risolta (mi pare) dal cosiddetto compromesso di Lussemburgo del 1985, per il quale ogni Stato membro veniva di fatto ad avere un diritto di veto su qualsiasi proposta legislativa comunitaria. Questa fu l’avvisaglia del rapido crollo degli elementi soprannazionali.

Da allora, la CEE è cresciuta, si è arricchita di appendici varie, ma i tentativi per “federalizzarla” sono falliti. Ad un certo punto, si arenò anzi sulla questione del passaggio dall’unione doganale a un vero e proprio mercato interno. Intervenne però lo shock petrolifero e si fece largo la coscienza della perdita di peso economico dei paesi europei nei confronti di USA e Giappone. Cominciano così ad elaborarsi ipotesi e progetti. Nel 1984 Spinelli proponeva il suo trattato, ma Jacques Delors, Presidente della Commissione dal gennaio 1985 e interprete dei funzionalismi, gli oppone il progetto dell’”Atto Unico Europeo” (approvato nel 1987). L’Atto intendeva affrontare globalmente (entro il 1993) il problema della libera circolazione delle merci, ma anche dei capitali, dei servizi e delle persone. Enunciava anche le modalità di una cooperazione tra gli Stati membri - in materia di politica estera - formalizzando passi abbozzati nel corso degli anni precedenti.. Delors sintetizzava così i suoi ideali: “il modello economico europeo deve fondarsi su tre principi: la concorrenza che stimola, la cooperazione che irrobustisce e la solidarietà che unisce”. Restava sempre il sindacalista cristiano di gioventù, promotore delle idee del “personalismo” allora in voga.. Tra quello che egli riuscì a fare approvare e il progetto spinelliano le differenze erano essenziali: nel progetto Spinelli, approvato dal Parlamento ma disatteso quasi subito, il Consiglio diveniva una specie del Senato americano e il Parlamento era la Camera dei Rappresentanti, mentre la Commissione diveniva l’Esecutivo. Delors osservò subito che no, la Commissione non era un “Esecutivo”, nemmeno in prospettiva. Eppure, proprio a Delors venne poi affidato dai 12 Paesi l’incarico di guidare un Comitato che delineasse il passaggio all’Unione Economia e Monetaria

Dal lavorìo di Delors, convinto che unificando la moneta si sarebbe unificato anche il resto, prendeva abbrivio il Trattato di Maastricht del 1992. Dell’Alba mi ha raccontato che Pannella criticò Delors, perché non aveva osato quando poteva, cioè negli anni fecondi prima della caduta del muro di Berlino (che è dell’ ‘89). ---- Con tutti i suoi “successi”, Maastricht dava vita, ad una Unione “à la carte”. Se non nasceva, si sviluppava la filosofia, che riappare oggi, dell’ “opting out”, che piace tanto a un liberalnazionalista come Dahrendorf. Si avviava in realtà un processo di disunione se non di disgregazione della costruzione europea. E’ con Maastricht che si accentua il divario tra Bruxelles e i popoli europei. In mancanza di un “partito europeo” i partiti nazionali, le burocrazie nazionali, i risorgenti nazionalismi, la fine della paura dello spauracchio sovietico, ecc., provocavano reazioni antieuropee diffuse. E comunque nasceva l’Euro.

Non ci è possibile inseguire le vicende successive, dei vari trattati e accordi che si sono succeduti. Quello che ci preme rilevare, come dato complessivo, è che queste iniziative intergovernative hanno reso estremamente complesso il funzionamento delle strutture burocratiche dell’Unione, senza rafforzarne il nocciolo decisionale. Anzi, i centri decisionali, tra Commissione e Parlamento, sono stati lentamente svuotati. E’ il processo che ci ha portato all’Ecofin e forse porterà al fallimento la Convention. Se sia stata colpa della Commissione stessa, dei Governi nazionali o della Presidenza di turno italiana non saprei dirlo. Direi però che tutti hanno operato per arrivare al risultato che lamentiamo. A me pare comunque ingiusto prendersela innanzitutto con la Commissione. Non amo il suo Presidente, ma il vero problema è che la Commissione è un simbolo dell’impotenza giuridico-istituzionale dell’Europa. E’ sbagliato chiedere di accrescere i poteri del suo Presidente, per dare forza all’Europa come unità. E’ un grossolano fraintendimento del significato istituzionale dei ruoli. La Commissione, col suo Presidente, è un organo formalmente votato dal Parlamento, ma sulla base di un compromesso tra forze nazionali, controllate dai governi. Non ha una sua sovranità, dote e prerogativa solo di un Governo. Dunque, il problema vero è quello di compiere un salto costituzionale-istituzionale. L’abbiamo atteso dalla Convention di Giscard d’Estaing, di Giuliano Amato e di Fini, ma credo si possa dire che essa non ha sciolto questo problema, confezionando anzi un pasticcio difficilmente gestibile tra poteri del Consiglio e quelli della Commissione. Marco Pannella ha definito la Convention (spero di non tradire le sue parole) “un progetto di riassetto e di organizzazione del potere e delle istituzioni del ‘territorio Europa’ che appare un guazzabuglio più che una sapiente alchimia capace di resistere al tempo, ai decenni,…. di cui è difficile dire come e se funzionerà, se potrà essere manovrato, a partire dalla questione del voto a maggioranza”, ecc. Pannella contrappone la “classicità” dello Stato di diritto - alla Montesquieu - che semplifica per far sì che le gente capisca, e le logiche del potere partitocratrico, che non tollera tale classicità da Stato di diritto. Bene, la Convention esprime – qui sono io a parlare in prima persona - la farragine di una produzione normativa espansa in ogni settore (con i famosi tre pilastri) dal diritto al sociale, ecc., ricalcando e ampliando tendenze e strutture tipiche delle concezioni storicamente più radicate (e datate) dell’Europa continentale, quella della Francia e della Germania della socialdemocrazia modello SPD; anche quando queste concezioni già entravano in collisione con le nuove tendenze liberiste o globaliste. Benedetto Della Vedova, tra di noi, se la prende con le persistenze di vecchi spiriti socialdemocratici, che inquinano il Trattato di Nizza di due anni fa.. Ma trae dalle sue critiche la conclusione che, stando così le cose, il governo unico dell’economia sarebbe un peso in più. E’ esattamente il contrario, credo di poter dire. Restituire alla politica, cioè ad un governo, il primato delle decisioni significa mettere in crisi l’intreccio delle burocrazie tecnocratiche e quel concetto del sociale, col quale esse cercano di superare, peraltro non riuscendovi, il gap di credibilità con la gente. C’è chi sostiene che occorre lasciare agli Stati la libertà nelle scelte economiche. Niente governo unico! In linea generale, non mi pare si possa continuare ad avere una moneta a gestione interamente sovranazionale (Banca Europea), un bilancio dello Stato a responsabilità nazionale ma sotto tutela europea, e una politica occupazionale a integrale responsabilità nazionale: come evitare il collasso funzionale di un simile sistema? Io, da ostinato liberale, sono fisso – tra l’altro - sull’idea che la libertà occorre darla, conquistarla per gli individui, contro lo Stato. E dicendo questo parlo – io - di libertà all’americana.

Non posso divinare, ma nemmeno prevedere quali saranno i risultati della Conferenza Intergovernamentale tra pochi giorni. I fatti sono oggettivamente di allarmante crudezza.. La vicenda dell’Ecofin, la messa in crisi - compiuta in quella sede - del Patto di Stabilità, è ancora aperta, Non sono in grado di dare un giudizio tecnicamente fondato su quanto è accaduto. Lo scontro tra Prodi e Berlusconi (o tra Tremonti e Solbes) non si placa. Guarda caso, è uno scontro politico, non tecnico-funzionale.

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A parte il gìudizio negativo sul semestre di presidenza italiano, dire però – come ha fatto Prodi – che quel Patto è, o era, stupido, e poi non incardinare immediatamente una conseguente e vigorosa azione politica di modifica o di superamento, lo condanna, e condanna la Commissione. Ciò detto, è chiaro che Chirac, più Tremonti (per il quale l’Europa è una tecnocrazia ingessata attorno al suo “potere di regole”) più Schroeder più Blair sono - in solido - degli “sfascisti”, diremmo noi: usano la giusta messa in discussione del Patto non per ridisegnare un ruolo della Commissione, ma per depotenziarla e per ridar vita ad un periferico, inutile concertino di minipotenze. Qui è il nocciolo del problema. Tutti lo vedono, sia pure da lati opposti della barricata. Alcuni fanno anche finta di non vedere. Proclamano che l’Europa deve impegnarsi sul fronte delle liberalizzazioni, della sburocratizzazione, ecc., ma si affidano al movimento spontaneo dei contenuti: le istituzioni seguiranno…. Oppure se la prendono con l’accoppiata franco-tedesca, e in odio ad essa respingono le ipotesi più federaliste. Temono che attribuendo a quel tandem poteri di “governo”, le cose non potranno andare che come vanno oggi, compresa l’ottusità di fronte alla vicenda iraquena, alle sollecitazioni della Turchia, alla drammatica problematica israeliana. C’è poi, dinanzi ai loro occhi, il fantasma dell’antisemitismo, questa reviviscenza francese e tedesca dei giorni di Dreyfus e dell’olocausto. Storie antiche che la stagnazione europea fa rivivere. Io invece credo, da radicale, nelle istituzioni e nella loro capacità di mettere in movimento le situazioni, governare i fatti, responsabilizzare l’opinione pubblica in grandi dibattiti; e come dico che il bipartitismo e il voto uninominale secco modificherebbero gli equilibri interni italiani, così penso che la costituzionalizzazione del federalismo costringerebbe tutti a diversi comportamenti. Alla peggio un sistema federale, all’americana, consentirebbe di dare un nome al responsabile, dei successi come dei fallimenti.

Va detto però anche - con fermezza - che una gravissima responsabilità dello stallo europeo ricade, io non ho dubbi, sulla Gran Bretagna. La GB da secoli fa il controllore dell’Europa, ma dall’esterno. Non si assume responsabilità, se non di veto. Lungi dall’essere una forza di crescita democratica, con il suo potere di interdizione fa solo da freno. In inglese, si chiamerebbe filibustering. Si dirà che questo è stato sempre il ruolo dell’Inghilterra. Solo, un tempo lo esercitava in nome della propria sovranità imperiale, oggi agisce in conto terzi. Non è un trait d’union tra le due sponde atlantiche: è responsabile solo di una ulteriore confusione ideale e impotenza politica. Avendo il peso, peraltro, di una opinione pubblica e di una stampa non migliore - in alcun senso - di quella continentale.

Il ministro Martino auspica che l’UE invii truppe in Iraq. Stupisce che un esponente liberale, che dovrebbe portare attenzione alle istituzioni e al loro funzionamento, su un tema così pregnante resti nel vago. Chi dovrebbe mandare truppe? Il nuovo nocciolo di “cooperazione rafforzata” anglo-franco-tedesco siglato a Napoli ma guardato con diffidenza da Rumsfeld (ma vedremo cosa Powell dirà giovedì ai partners europei). Nell’ambito Nato e in quale forma? Oppure dovrebbe intervenire la UE, con un esercito europeo autonomo? Alla fine si rafforzerà solo la presenza militare dello strano asse ispano-italo-polacco? Martino non sa indicarcelo. Vedete quante opzioni sono possibili, o impossibili, nel caos attuale?
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Questo convegno è stato convocato per dare a noi stessi alcune indicazioni, porre alcuni problemi e provare a darci alcune risposte su tre punti:
E’ possibile, sarebbe utile un partito radicale europeo?
Cosa significa organizzare il progetto “Stati uniti d’Europa e d’America?”.
Cosa si vede, in prospettiva, del progetto della organizzazione della e delle democrazie?

Vediamo intanto le scadenze sulle quali dovremmo poter misurare la nostra possibile iniziativa, tenendo presenti quelle domande: C’è, tra pochissimi giorni, la conclusione della Conferenza Intergovernativa sotto la presidenza di turno dell’Italia. Le voci più disparate si inseguono, Berlusconi appare ottimista, sembra abbia sostanziose proposte politiche da offrire ad Aznar, ai polacchi, ecc. Altri prevedono l’arrivo del temporale. E noi, cosa dovremo fare, noi? Cosa dovranno fare gli eurodeputati radicali? Che posizione dovranno prendere, se la Convention approderà in Parlamento? Ci saranno reazioni, in Italia? Per es. se la Convention cade, è possibile prevedere qualche iniziativa? In che direzione?

C’è tra l’altro la questione del preambolo sulle radici cristiane. Maurizio Turco ha fatto sentire il nostro dissenso. Che altro si potrà fare?

C’è poi, subito dopo, la scadenza delle elezioni europee dell’estate. Si ventila anche l’ipotesi di un partito radicale europeo. Sentiremo in proposito la relazione Dell’Alba, che porrà problemi e interrogativi.

E quindi, c’è il grande tema del rapporto tra Europa e Stati Uniti. Io ho detto quel che penso in proposito: senza una Europa politicamente efficiente, questo rapporto sarebbe fallimentare. Ne parlerà Capezzone, subito dopo di me.

Ma vorrei spingermi oltre. Le attuali nostre priorità di radicali impegnati si concentrano attorno al tema dell’organizzazione Mondiale della e delle Democrazie. Il tema non può non toccare la questione europea. Io sono convinto che una Organizzazione Mondiale delle Democrazie che non vedesse tra i suoi membri l’Europa, ma, per dire, l’Italia o la Romania o altro paese europeo, non avrebbe il respiro sufficiente ad affrontare la crisi o le crisi democratiche in corso. Sarebbe l’anticamera del fallimento.

COME VEDETE, IN QUESTA CONCLUSIONE ARRIVO AL MASSIMO A PROPORRE PROBLEMI E INTERROGATIVI, NON SOLUZIONI. CREDO CHE PER INTRAVEDERNE, OCCORRERA’ QUANTO MENO ATTENDERE LE ALTRE RELAZIONI E I CONTRIBUTI DEL POMERIGGIO. Con questo résumé storico spero di aver dato un utile contributo al nostro incontro.
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Presentation by Angiolo Bandinelli: «Reform and counter-reform of Europe» "FROM VENTOTENE TO THE CONVENTION Reform e counter-reform of Europe"