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11/03/2004 | "EXPOELETTE", SALONE INTERNAZIONALE DELLE ELETTE. Intervento di apertura di EMMA BONINO

Torino, 11/3/2004 , Centro Congressi Lingotto


Chi si occupa di questioni femminili nel mondo non democratico- e non parlo solo del mondo arabo e islamico con regimi teocratici o condizionati dal fondamentalismo religioso- si rende perfettamente conto che la condizione della donna - e le lotte per il miglioramento delle loro condizioni elementari di vita - costituiscono di per sé una chiave per promuovere in quei paesi condizioni di sviluppo politico.

Lottare contro le mutilazioni genitali femminili, ad esempio, non significa solo lottare per l'intangibilità del corpo delle donne, del loro apparato genitale riproduttivo e del loro diritto al piacere: non significa affatto porre una "questione di genere", ma significa mettere direttamente in discussione un modello di organizzazione sociale e politica, significa fare irrompere il tema dei "diritti della persona", della cui conquista non saranno solo le donne a giovarsi. Una società che con il concorso positivo e omissivo delle istituzioni politiche consente la segregazione e persecuzione femminile, la loro sottomissione sociale e familiare e la loro esclusione politica è sempre- e sottolineo sempre- una società che sequestra e cancella i fondamentali diritti civili e politici di tutti i cittadini: è insomma una società in cui la condizione femminile costituisce un epifenomeno, una manifestazione eclatante di una più complessiva barbarie.

Dunque, secondo la mia visione- che non è tanto e solo mia, ma che è comune a larga parte delle classi dirigenti femminili dei paesi in via di “sviluppo politico”- la questione femminile è dirompente, e sempre più lo diventerà in futuro, perché non pone semplicemente una questione di “rappresentanza”, ma una questione più generale di evoluzione giuridica e politica rispetto agli assetti esistenti, di cui la discriminazione o sottomissione femminile costituisce la più evidente, ma non la sola, cartina di tornasole. Di questo mi accorgo proprio vivendo e lavorando nel mondo arabo. Le donne che fanno politica non vogliono fare un "sindacato di genere", ma vogliono, per dirla in modo franco, costruire, a partire da sé, ma non solo per sé, uno stato di diritto e di libertà, che è al momento, come la storia ci ha insegnato, il solo strumento di cui disponiamo per assicurare non solo la pacifica convivenza civile, ma anche decenti condizioni di vita per le donne.

La questione femminile costituisce dunque, in questi paesi, la cifra stessa della “questione democratica”. Da questo punto di vista la liberazione o l’emancipazione femminile costituisce un fattore di complessiva emancipazione e sviluppo politico. È difficile leggere questo fenomeno secondo gli schemi che ci sono propri e che abbiamo desunto dall’esperienza del movimento femminile o femminista nei paesi democratici.

Nei paesi europei, ad esempio, il movimento femminile- nelle sue diverse articolazioni e con le sue battaglie puntuali: sull’aborto, sul diritto di famiglia, sulla parità giuridica in senso lato…- ha contribuito in modo determinante allo sviluppo del costume, della cultura e dell’etica pubblica e all’ammodernamento del nostro sistema giuridico. Nei paesi “in via di sviluppo politico” la questione femminile ha una rilevanza ancora più decisiva: è di per sé una “molla” di democratizzazione, di costruzione dello stato di diritto. In questi paesi non c’è, né ci sarà presumibilmente, alcun tempo politico e storico fra il momento della democratizzazione e quello dell’emancipazione civile e politica femminile. Se avverranno, o quando avverranno, questi due fenomeni saranno contestuali. Le donne si libereranno insieme ai propri paesi, conquisteranno diritti insieme agli uomini (a quelli- e sono l’assoluta maggioranza- che non fanno parte delle caste militari, politiche e religiose che opprimono i propri paesi)
Nella stragrande maggioranza dei casi, quindi, non si tratta di estendere alle donne una serie di diritti, riconoscendo ad esse condizioni di parità, ma si tratta di costruire, a partire dalla condizione femminile, la nozione stessa di diritto della persona, dell’individuo. Per dirla in modo schematico, la questione femminile, in questi paesi, non pone solo il problema del superamento di una legislazione sessista e maschilista, ma anche il problema ancor più radicale del superamento del potere assoluto (che è anche, certo, maschilista, ma che è innanzitutto assoluto, e maschilista proprio perché assoluto).

Noi in Europa abbiamo lottato come donne e per le donne con gli strumenti della democrazia. Altrove, nel mondo, la lotta femminile coincide in tutto e per tutto con la lotta per la democrazia.
Basta questo per comprendere come e perché le “questioni femminili” (e ne parlo volutamente al plurale) vadano lette con riferimento alle diverse latitudini in cui si pongono, evitando rischi di generalizzazioni schematiche e astratte.

E proprio ad una generalizzazione astratta mi sembra rispondere il modo in cui, nella nostra democrazia e nelle nostre democrazie, si vorrebbe rispondere al problema della rappresentanza politica femminile. Mi riferisco, come è ovvio, alla questione delle cosiddette “azioni positive” o delle “norme antidiscriminazione” in campo elettorale, ben sapendo di esprimere una posizione diversa da quella della maggioranza delle donne che fanno politica e che ritengono, con questi strumenti, in perfetta buona fede e per ottime finalità- ma secondo me sbagliando, sul piano dei mezzi- di promuovere il protagonismo politico femminile.

Io ho lanciato alcuni anni fa una battaglia per ottenere una rappresentanza femminile nel governo afgano. Ritenevo e ritengo che fosse politicamente determinante per marcare una soluzione di continuità, e per segnare l’inizio dell’apertura di una “questione femminile” in un paese che aveva cancellato il diritto ad una autonoma esistenza civile, politica e sociale delle donne. Pensavo allora- e penso ancora- che questa richiesta non abbia nulla a che fare con la richiesta di norme antidiscriminatorie nella legislazione elettorale italiana o europea.
In Italia e in Europa non ci troviamo di fronte ad una discriminazione giuridica a cui rispondere con misure giuridiche. Ci troviamo di fronte ad un problema politico, e aggiungerei, di lotta politica interna ai singoli partiti: la soluzione, per quanto mi riguarda, non può che essere politica e non può essere “surrogata” con accorgimenti giuridici tanto generosi quanto, nella sostanza, inconsistenti e deresponsabilizzanti. Un protagonismo politico femminile va conquistato e non può essere diversamente assicurato. È una questione che ha a che fare con i partiti e con la lotta delle donne e degli uomini lungimiranti dentro i partiti.

Questo non significa affatto che come radicale io consideri irrilevante la questione della rappresentanza politica femminile. D’altra parte, nella storia di questo dopoguerra, solo il Partito radicale ha avuto due segretarie donne (la sottoscritta e Adelaide Aglietta), e nessun altro partito, se non ricordo male, ne ha avuta alcuna (con la breve eccezione di Grazia Francescato alla guida dei Verdi).
Avere la garanzia di una quota minima di candidate, o peggio di elette, non rende necessariamente più forti le donne in politica, ma le rende semplicemente protette- non a caso si parla di “norme panda”- e quindi, per come vedo io le cose, ancora meno incoraggiate a porre il problema della propria rappresentanza e del proprio autonomo potere.

Per altro verso, una bassa rappresentanza femminile non deriva solo da un elemento di debolezza delle donne, ma da un elemento di pesantissima debolezza del sistema politico. Non tocca solo alle donne rimediarvi, ma tocca alle donne porlo in modo politicamente stringente. Una bassa rappresentanza femminile non significa di per sé che esista una discriminazione: può significare anche una difficoltà di selezione e formazione delle classi dirigenti, una incapacità di rendere la politica un campo appetibile e interessante per quella parte di classe dirigente femminile che pensa di affermarsi o “emanciparsi” meglio in altre e diverse professioni…

Tutt'altra cosa, di tutt'altro segno, e per me altamente positivo, è l'intenzione annunciata da alcuni partiti- e penso in particolare a una proposta di Fassino- di vincolarsi politicamente ad accrescere la propria rappresentanza femminile. Mi ricorda la scelta che i radicali fecero nel 1976, presentando capolisture femminili, fra cui quella della sottoscritta, in tutte le circoscrizioni italiane. Queste scelte, queste decisioni libere e "costose" dei partiti hanno una eloquenza, una "forza di parola", una capacità di comunicare anche e soprattutto all'elettorato femminile e secondo me, proprio per questa ragione, potranno essere premiate e ottenere risultati molto superiori a quelli assicurati da complicati marchingegni giuridici.

Non mi pare, peraltro, che la situazione fosse mutata significativamente nel breve intervallo di tempo in cui venne introdotta nella legislazione elettorale una norma di parità nelle candidature, prima della sentenza negativa della Corte Costituzionale e prima che la modifica dell’art. 51 della Costituzione riaprisse la strada a norme “positive” sulla rappresentanza femminile… Al contrario, quanto di quel periodo ricordo fu abbastanza umiliante, come donna. Nella seduta di apertura della Camera, nel 1994, due donne elette, grazie a quella norma positiva, nelle liste bloccate di recupero proporzionale, si dimisero per fare spazio ad altri candidati non eletti. E non fu proprio un momento esaltante. Ma dimostrò che il potere reale dei partiti, se le donne non acquisiscono in essi un potere effettivo, è molto più forte del potere simbolico di qualche norma giuridica di "protezione" dell'elettorato passivo femminile.

C’è inoltre un elemento di clima sociale e culturale tutt’altro che superato, che condiziona la partecipazione politica femminile; ma anch’esso non è rimediabile con forme o azioni giuridicamente “positive”. È ben difficile che le donne possano essere elette- foss’anche segretarie di sezione- se a loro è affidata l’esclusiva dell’economia domestica, della cura dei figli, della assistenza agli anziani…Queste donne non saranno elette (al più faranno le candidate di riempimento) grazie alle norme andiscriminazione, ma grazie ad una forma di autoaffermazione. Dovranno comunque, prima di tutto, dire ai propri partners e alla propria famiglia che facessero il piacere di lasciarle libere di fare quello che loro piace e interessa… dovrebbero, per dirla in piemontese, iniziare loro per prime a gavese la nata e a bugiese, a darsi da fare ed a muoversi…
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