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12/10/2002 | Globalizzare la democrazia: dall'Asia all'Europa, percorsi, connessioni, contraddizioni e necessità
di Olivier Dupuis

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38 ° Congresso del Partito Radicale – Seconda Sessione
Tirana 31 Ottobre – 3 Novembre 2002

1. Dialogo con Pechino ?

Sta succedendo qualcosa di importante in Cina ? Sta per arrivare il momento tanto atteso del salto nella democrazia e nello stato di diritto ? Segnali, contradditori e contrastanti, possono quindi logicamente portare a due letture opposte, una lettura ottimista e una lettura scettica e, tra queste due letture, a un’infinità di varianti.

a) degli sviluppi che potrebbero essere positivi...

Primo punto: verso un negoziato sul Tibet. Da oltre un anno le autorità cinesi hanno proceduto alla liberazione di decine di importanti prigionieri politici e di coscienza tibetani come, per esempio Tanak Jigme Sangpo. Sulla situazione di un’altra prigioniera politica “simbolo”, Nawang Sangdrol - monaca tibetana, incarcerata per la prima volta a 14 anni, in prigione da più di dieci anni per aver manifestato a favore della libertà del Tibet - le autorità carcerarie della prigione di Lhasa hanno affermato ad una delegazione di parlamentari europei, che “vista la sua buona condotta, potrebbe essere rilasciata abbastanza presto”. Sempre sulla questione del Tibet, c’è stata la visita negli scorsi mesi, in veste privata, del fratello del Dalai Lama in Cina e in Tibet e, qualche settimana fa, la visita su invito delle autorità di Pechino di due inviati dello stesso Dalai Lama, Lodi Gyari e Kelsang Gyaltsen, a Pechino e nel Tibet dove hanno avuto incontri sia con autorità cinesi a Pechino che con autorità della cosiddetta Regione Autonoma del Tibet, a Lhasa. Questi gesti di apertura nei confronti della questione tibetana hanno portato il Primo ministro del governo tibetano in esilio, il Prof. Samdhong Rinpoche, a lanciare un appello a tutti i simpatizzanti della causa tibetana nel mondo perché sospendessero le manifestazioni di protesta nei confronti delle autorità cinesi in occasione delle loro visite ufficiali all’estero. Una situazione nuova che non cancella ovviamente le nostre valutazioni secondo le quali l’organizzazione in questi ultimi anni di un satyagraha mondiale per la libertà e la liberazione del Tibet, ovvero di un’iniziativa nonviolenta organizzata di decine di migliaia di persone, avrebbe potuto creare un rapporto diverso tra la leadership tibetana in esilio e le autorità di Pechino, e quindi una posizione di partenza migliore per affrontare un negoziato sul futuro del Tibet. Pero’ non possiamo rimpiangere il passato, gli errori degli uni e degli altri, ivi compresi i nostri errori. Dobbiamo tenere conto di questa nuova realtà.

Secondo punto: il fronte delle lotte civili. Si è riscontrata, probabilmente grazie anche alla forza e alla tempestività delle reazioni internazionali, la liberazione dopo un mese di detenzione di Wan Yanhai, leader del movimento di lotta all’Aids e contro lo scandolo delle trasfusioni di sangue nella provincia di Henan.

Terzo punto: la democratizzazione a livello locale. Il processo di riforme atte a democratizzare le istituzioni locali, di apprensione difficile per via delle dimensioni della Cina, sembra avere visto un rallentamento delle operazioni di “rettificazione” dei verdetti delle urne quando questi non corrispondevano a quelli voluti dal Partito Comunista Cinese. In diverse località sono stati eletti sindaci o ad altre responsabilità personalità che provengono apertamente da fuori dal Partito Comunista.

Quarto punto: la questione sociale. Seppure anche qui in presenza di notizie a volte contraddittorie, si puo’ intravedere nelle reazioni delle autorità cinesi, rispetto al crescente numero di conflitti sociali, un certo cambiamento, un ricorso più frequente al dialogo, alla trattativa, con, anche, arresti di media o breve durata ma non più come prima, con un ricorso automatico ad una violenta repressione con pesanti condanne di prigione o di campo di lavoro, ma con arresti di media o breve durata.

Quinto punto: cambiamento al vertice del potere. Hu Jintao diventa capo del PCC a novembre, presidente della Republica al termine della prossima sessione dell’Assemblea del popolo, nel marzo 2003. Jiang Zemin viene emarginato, i suoi sostenitori nel Comitato Centrale non sono in grado di bloccare Hu Jintao. La porta delle riforme si apre.

b) la società si muove ma tutto rimane fermo nelle sfere del potere...

Primo punto: Tibet, altri 3 anni guadagnati per la leadership cinese. Con un’apertura di credito del tutto indefinita al Dalai Lama, la leadership cinese riesce a mettere a tacere l’unica questione che riesce ancora a mobilitare nelle capitali occidentali l’opinione pubblica, i mass media, con manifestazioni e iniziative che disturbano qualsiasi visita delle massime autorità cinesi all’estero. Primo risultato conseguito, la leadership tibetana in esilio propone a tutti i sostenitori della causa tibetana una moratoria di un anno su tutte le manifestazioni di protesta nei confronti di dirigenti cinesi, a cominciare dalla visita che Jiang Zemin dovrà compiere negli Stati Uniti nelle prossime settimane. Da parte loro, le autorità cinesi non hanno nessuna intenzione di dare al Tibet uno status di reale autonomia, paragonabile a quello di Hong Kong o Macao, vogliono solamente guadagnare tempo per portare a termine la loro politica di trasferimento di popolazione e, quindi, completare il processo – già in uno stato molto avanzato – di sinizzazione del Tibet e di emarginazione/ghettizzazione della popolazione tibetana. Anche a dimostrazione del carattere cosmetico del nuovo atteggiamento delle autorità cinesi sulla questione tibetana, viene ulteriormente rafforzata la repressione degli Uighuri e dei Mongoli meridionali. E’ evidentemente di difficile comprensione il perché la leadership tibetana in esilio ha, in un tale contesto, accettatto di dialogare su delle basi tali. Per stanchezza ? Per salvare, intanto, come viene affermato in alcuni documenti del governo tibetano in esilio, il patrimonio ambientale del Tibet, pesantemente minacciato da una politica cinese che ne ha fatto una vera e propria pattumiera dell’intera Cina ? Per “dare qualcosa” ad una opinione pubblica tibetana - sia in esilio che in Tibet – dopo 40 anni di tentativi improduttivi ?

Secondo punto: il fronte delle lotte civili. Solo la gravità della questione Aids e la forza delle proteste internazionali hanno portato le autorità a rilasciare il leader Wan Yanhai. Non c’è cambiamento strutturale nelle modalità di trattamento delle richieste che emergono da una società civile più cosciente, agguerita e coraggiosa. Non ci sono cambiamenti legislativi, non ci sono miglioramenti nel rispetto delle regole e procedure, nell’implementazione quindi dello Stato di diritto. Il cambiamento è in parte congiunturale (l’importanza degli appuntamenti politici dei prossimi mesi: congresso del PCC, Assemblea del Popolo, ...), in parte potrebbe corrispondere all’emergere di una nuova forma di comunismo che Yves Chevrier chiama “communisme distendu”, dove il controllo a distanza prende il posto della dominazione grezza, dove, secondo Frédéric Bobin, lo stato-partito lascia alle organizzazioni della società civile – una volta comprovata la loro innocuità politica – il compito di “ricreare del legame sociale”, di svolgere compiti sociali non più assicurati dallo stato-partito.

Terzo punto: la democratizzazione a livello locale. Una lettura attenta del cosiddetto processo di democratizzazione a livello locale è molto più mitigato. Nel suo assieme, le autorità del partito sono riuscite a mantenere il controllo, seppur costrette, qualche volta, ad operazioni cosmetiche.

Quarto punto: la questione sociale. I movimenti di protesta sociale non riescono a trovare momenti di unità. I sindacati ufficiali e le altre autorità riescono ad impedire la nascita di qualsiasi altra organizzazione sindacale, operando una repressione selettiva quanto efficace.

Quinto punto: cambiamento al vertice del potere. Hu Jintao diventa capo del PCC a novembre e Jiang Zemin presidente della Commissione militare. Al Comitato Centrale gli uomini di Jiang Zemin sono in grado di bloccare qualsiasi iniziativa del nuovo capo del partito. A marzo l’Assemblea del Popolo elegge alla Presidenza della Repubblica un uomo di Jiang Zemin. Si apre una stagione di stallo. Lo status-quo vige ovunque. La porta delle riforme si chiude.

Di fronte a questi due scenari opposti e alle decine di altre possibili combinazioni, il rischio sarebbe di diventarne prigionieri e quindi paralizzati. Invece, il ruolo o un ruolo possibile per una organizzazione come il Partito Radicale Transnazionale dovrebbe essere, a mio avviso, quello di creare luoghi di dialogo per chi all’interno o all’esterno della Cina vuole riflettere e concepire soluzioni che possano far compiere all’insieme della società cinese dei passi concreti in direzione della democrazia e, più importante ancora, dello stato di diritto. Secondo me, la grande questione della Cina di oggi è quella di capire come iscrivere nel diritto le conquiste ottenute nelle più svariate lotte per i diritti civili, sociali e ambientali. Aprendo – come auspicato da Roberto Cicciomessere - dei canali di dialogo con delle personalità cinesi sia all’interno o intorno all’attuale classe dirigente che al di fuori di essa, ma facendolo sulla base di proposte e obiettivi di riflessione e di azione molto precise, affrontando tutte le questioni, senza tabù, a cominciare dalle questioni dell’Aids, del Turchestan orientale, della Mongolia Meridionale, della libertà religiosa, delle questioni sociale e sindacale. Un approccio che difficilmente potrà, come giustamente sottolineato da Marino Busdachin, fare l’economia di un nostro inserimento diretto nella realtà cinese, con una nostra presenza in loco, cosi come la concepimmo e realizzammo nella seconda metà degli anni ’80 nell’Europa centrale ed orientale e nell’ex impero sovietico.

Una tale impostazione costituirebbe incontestabilmente un cambiamento nel nostro approccio alla questione Cina che ci imporrà di moltiplicare – senza avere paura di prendere dei rischi - i nostri interlocutori. Per questo sarà molto importante quanto ci potranno dire gli amici cinesi o sinologi come Wei Jingsheng, Cai Chongwo, Marie Holzman, gli amici uighuri, a cominciare da Enver Can ed Erkin Alptekin, gli amici Mongoli o dei Falun Gong, ....

2. La questione dell’Asia del Sud-Est

La situazione è del tutto diversa per quanto riguarda l’Asia del Sud-Est. Anche se dobbiamo trattare con delle realtà molte diverse tra di loro. La Birmania dei generali sembra voler rompere, seppur lentamente, con il recente passato di feroce repressione prima, di cupo immobilismo dopo, la Thailandia che prosegue, complessivamente, sulla strada del consolidamente della democrazia, la Cambogia, “mezza-democratica”, con il partito di Hun Sen al potere, già rifugiato a Hanoi e riportato a Phonh Penh con i “liberatori vietnamiti”, erede del partito comunista, oggi molto potente seppur confrontato ad una opposizione vigorosa, in particolare del partito di Sam Rainsy e, in misura più sfumata, del partito di Norodom Ranariddih. Pero’ con una situazione molto triste e grave in Vietnam, che possiamo riassumere con i commenti eloquenti tenuti dal Primo Ministro Van Khay al termine della visita ufficiale che ha compiuto qualche settimana fa presso le istituzioni dell’Unione europea a Bruxelles. Nella conferenza stampa conclusiva, tenuta insieme al presidente della Commissione europea, Romano Prodi, Van Khay ha tenuto a ribadire che “loro” erano in vincitori e che, quindi, non avevano motivo di accogliere delle proposte o richieste fatte loro dalla comunità internazionale in generale, dall’Unione europea in particolare. La situazione interna è, del resto, ormai ben conosciuta: feroce repressione della libertà di religione, permanenza dei campi di concentramento, dura repressione delle minoranze etniche, in particolare i Montagnards nel Vietnam, gli Hmong in Laos, corruzione dilagante, situazione economica deludente, occupazione appena velata del vicino Laos dove, per ovvie ragioni, la situazione per quanto riguarda il rispetto dei diritti fondamentali è speculare a quella vietnamita, se non addirittura peggiore, i Kisling di Vientiane superando per zelo i maestri di Hanoi.

Che fare ?

Su questo, abbiamo registrato alcuni progressi importanti che vanno rafforzati. In particolare vanno sviluppate, a partire dalle idee e dalle proposte sorte durante la conferenza "Asia del Sud Est: la democrazia negata, le libertà massacrate: la situazione in Birmania, in Laos ed in Viet Nam”, le sinergie tra i vari movimenti che lottano per la democrazia e la libertà nei cinque paesi (Birmania, Cambogia, Laos, Thailandia e Vietnam) e che hanno trovato un primo momento di attuazione militante con la giornata mondiale per il Vietnam del 21 settembre scorso. Un secondo test di questa convergenza di energie si dovrebbe vedere il 26 ottobre con le manifestazioni a Bruxelles, Canberra, Mosca, Parigi e Washington per “la libertà, la democrazia e la riconciliazione nel Laos” e per la liberazione dei 5 di Vientiane, Thongpaseuth Keuakoun, Seng-Aloun Phengphanh, Khamphouvieng Sisa-At, Bouavanh Chanmanivong, Kèochay, in occasione del terzo anniversario della manifestazione del 26 ottobre 1999.

Anche a partire dalle conclusioni della Conferenza di Bruxelles, andrebbe sviluppata l’idea di lanciare un movimento per l’integrazione democratica del Sud-Est asiatico sul modello dell’integrazione europea, rafforzando o potenziando i contatti in Thailandia e Cambogia e nelle diaspora e nelle opposizioni del Vietnam, del Laos e della Birmania, rompendo anche con la logica integrativa dell’ASEAN.

Dovrebbe essere sviluppata con la massima urgenza, come deciso al termine della Conferenza di Bruxelles, uno studio e un’analisi critica sul tipo di relazioni esistenti tra l’Unione europea ed i suoi Stati membri da una parte, il Vietnam, il Laos e la Birmania dall’altra, e sul ruolo che questo tipo di relazioni ha nel mantenimento o nel rafforzamento delle classi dirigenti antidemocratiche al potere in questi paesi.

Ma vista la chiusura dei regimi vietnamita e laotiano, va rafforzata la pressione sia su questi regimi direttamente, sia sui governi occidentali, a partire dalle questioni dei campi di concentramento, della tortura, dell’incarcerazione dei leader religiosi (Ven. Thich Huyen Quang, Ven. Thich Quang Do, Padre Van Ly in Vietnam), dell’oppressione delle minoranze etniche (Montagnards, Degar, Ma, Koho, Chill, Jarai, Muong, Bahnar, Sedang, Dao, Ede in Vietnam, Hmong nel Laos) moltiplicando le iniziative in seno all’ONU – come quella portata avanti quest’estate a Ginevra davanti al Comitato ONU per i Diritti dell’Uomo da Que Mê: azione per la democrazia in Vietnam e, in misura minore, dal PRT – e quelle parlamentari e militanti con lo slogan “Libertà, Democrazia e Riconciliazione nazionale“. In un clima in cui, molti nel Laos e in Vietnam, tra le autorità ma anche tra l’ambiente dei dissidenti, e nelle importanti comunità della diaspora laotiana e vietnamita, vengono ancora esaltate le contrapposizioni degli anni ’70, l’opposizione tra il Nord e il Sud Vietnam, tra il Laotiani che si risentono occupati e i Vietnamiti che si nascondono l’occupazione del Laos da parte del loro Paese, è importante concepire luoghi di dialogo che consentino di affrontare questi motivi di divisione e di rancore e, grazie ad iniziative comuni, di progressivamente superargli.

Non ultimo, tenendo conto delle ragioni della sconfitta di quest’anno nella procedura di bilancio dell’Unione europea, andrebbe predisposta per l’anno prossimo una vera e propria battaglia per la messa in riserva dei fondi destinati al Laos e al Vietnam.

3. La questione della Pena di morte in Asia

Nel quadro della nostra generale battaglia per l’istituzione di una moratoria universale delle esecuzioni capitali ma anche nel contesto della nuova battaglia che stiamo lanciando per la creazione di una Organizzazione Mondiale delle Democrazie (OMD), sarebbe fondamentale darci la priorità dell’istituzione di moratorie sulle esecuzioni capitali nei cinque paesi asiatici dove la democrazia è più affermata: in Giappone, Thailandia, India, Corea del Sud e Taiwan. Sarebbe questa anche l’occasione per rafforzare i pochi contatti esistenti in Giappone, Thailandia e Corea del Sud, per moltiplicarle, e per affermare, anche in termini di impegno politico nostro, partitico, quel principio di “discriminazione positiva” nei confronti degli Stati democratici – e cioè di rapporti politici e economici privileggiati tra gli Stati democratici - che deve, ne sono profondamente convinto, venire affermato anche nelle relazioni tra Stati, sia a livello bilaterale che multilaterale.

4. La Porta dell'Asia

Parlare e, sopratutto, voler agire in Europa o nei paesi democratici per la libertà e la democrazia in Asia ci dà una ragione in più per pensare e agire per la democrazia e la libertà in una regione che costituisce la “porta” dell’Asia: il Caucaso. Una regione d’Europa inclusa nel Consiglio d’Europa, sia nella sua parte meridionale (Armenia, Azerbaijan, Georgia), sia nella sua parte settentrionale, ivi comprese le sue parti ancora colonizzate come la Cecenia, per via dell’appartenenza della Federazione russa al Consiglio d’Europa. Quella della piena appartenenza all’Europa è una precisazione importante, spesso e non a caso sottaciuta. Come ieri con la Bosnia, la Croazia o il Kosovo - “pezzi” d’Europa sottoposti alla barbarie in seguito allo scatenarsi della guerra voluta dal Dittatore Milosevic e alle complicità – almeno per omissioni - di non poche democrazie europee - un pezzo d’Europa è sottoposto da qualche anno ad un vero e proprio genocidio. Certo non si possono esentare i ceceni da ogni responsabilità nel non essere riusciti a creare, dopo la ratifica degli accordi di pace Lebed-Maskhadov del 1996, delle istituzioni solide, in grado di neutralizzare fazioni, clan, signori della guerra, mafie. Ma chi potrebbe affermare oggi che il Kremlino, con mezzi alquanto diversi, non sia tuttora confrontato con questo tipo di questioni non solo in Cecenia ma sull’insieme del territorio della Federazione russa ? Un nuovo accordo di pace tra la Federazione russa e la Repubblica di Cecenia non potrebbe fare l’economia di un periodo di transizione, con la creazione di un’amministrazione internazionale ad interim dotata di mezzi sufficienti per creare strutture statuali in grado di garantire democrazia e stato di diritto e di neutralizzare il potere degli ex-signori della guerra e delle mafie che sono cresciute sulla guerra. E’ stato possibile per Timor Orientale, per il Kosovo. Non c’è ragione che non lo sia anche per la Cecenia. Se, invece, si ritorna al presente, se si cerca di capire le ragioni del genocidio in corso, una conclusione si impone: la guerra in Cecenia è, per l’essenziale, il prodotto di lotte di potere tra fazioni opposte dell’establishment russo. Quelle stesse lotte di potere che l’Occidente – l’Europa in primis – non vuole vedere in nome della salvaguardia della “stabilità” della Russia e di qualche interesse economico (nel settore dell’energia in particolare).

Seppure dovessimo essere i soli ad affermarlo, in mezzo ai sarcasmi dei più, credo che dobbiamo dire oggi, come dicevamo ieri per la Bosnia, “l’Europa muore o rinasce a Grozny”. Dal modo in cui l’Europa e l’Occidente intero affronteranno la questione della Cecenia, dipende niente meno che il futuro (democratico) della Russia, l’avvenire della Georgia e dell’intera regione del Caucaso del Sud, le sorti del popolo ceceno martoriato ma anche l’esistenza stessa di un’Europa politica.

Si tratta quindi dell’anima russa e, di riverbero, anche dell’anima europea. Il futuro del Caucaso cosi come, seppur con venature diverse, il futuro dei Balcani o dell’Europa sud-orientale, dipendono dalla prospettiva europea che l’Unione saprà, o non saprà, dargli. L’attuale politica dell’Unione che si fonda sulla sostanziale emarginazione politica ed economica di queste due regioni strategiche dell’Europa – emarginazione nascosta dietro a più o meno ingenti e spettacolari politiche di stabilizzazione militare e di cooperazione burocratizzata come nei Balcani – non fa che iscrivere i paesi di queste regioni nel circolo vizioso della criminalità, dell’esodo dei cervelli, dei traffici, degli odi regionali o subregionali, fattori che creano quel clima di instabilità che impedisce evidentemente qualsiasi tipo di investimento che non sia di tipo mafioso, ...

L’anima dell’Europa è stata confiscata da una leadership europea – politica e giornalistica - che è riuscita a rendere l’allargamento ai dieci paesi dell’Europa centrale ed orientale un obiettivo impopolare, riuscendo a disconetterlo dalle oggettive responsabilità dei paesi occidentali nella tragedia che è stata la loro per oltre 40 anni. Più grave ancora, questa leadership cosi incapace di “vendere” le ragioni storiche che facevano dell’allargamento un dovere dell’Unione, si è rivelata addirittura incapace di far comprendere il nostro obiettivo interesse economico all’allargamento. Interessi economici che valgono anche per un Paese come la Turchia la cui bilancia commerciale pende drasticamente dal momento dell’entrata in vigore dell’Unione doganale Turchia-UE a favore dell’UE.

Ma, quanto meno, la Turchia, la Romania e la Bulgaria, scartate dalla prima ondata di adesioni all’UE, si trovano sull’elenco dei paesi candidati all’UE. Hanno quindi davanti a loro una prospettiva di adesione. Questa prospettiva, seppur legata alle capacità del Paese candidato di adempiere ai criteri fissati per l’adesione, è stata finora negata alla Croazia, alla Bosnia martoriata, all’Albania, alla Macedonia, alla Serbia-Montenegro del dopo Milosevic e anche, evidentemente, alla Georgia sottoposta alle pesanti pressioni della Russia, all’Azerbaijan, all’Armenia e alla Moldavia.

L’Unione europea deve tirare fuori la testa dalla sabbia e affrontare la questione dell’adesione dei Paesi europei dei Balcani e del Caucaso, paesi che probabilmente ne hanno più bisogno. Deve mettere un termine alla sua politica del “dividere per imperare”, proponendo più o meno sotto banco dei trattamenti diversificati - come sta tentando di fare ora con la Croazia, alla quale in via non ufficiale sta prospettando un inserimento nell’elenco dei paesi della seconda ondata di adesione (insieme a Bulgaria, Romania e, chi puo’ saperlo, Turchia). Tutti questi paesi devono essere inseriti sull’elenco dei paesi candidati, fermo restando che l’adesione di ciascuno di loro avverrà quando soddisferanno i criteri economici (acquis communautaire) e politici (criteri detti di Copenhagen). E’ questo il senso dell’appello lanciato dal Partito Radicale Transnazionale e già sottoscritto da 135 parlamentari albanesi, armeni, croati, georgiani e kosovari.
Testo dell’Appello

Appello di parlamentari albanesi, armeni, azeri, bosniaci, croati, georgiani, kosovari, macedoni, moldavi, serbi-montenegrini per l'inclusione dei loro paesi nell'elenco dei paesi candidati all'Unione Europea

Ai Membri della Convenzione Ai Membri del Consiglio, della Commissione e del Parlamento europeo L'Unione europea accoglierà entro poco tempo una decina di nuovi paesi-membri. Un avvenimento storico che, sotto molti aspetti, significa la riconciliazione dell'Europa con se stessa, il superamento delle divisioni che l'hanno cosi crudelmente segnata nel corso dei secoli e, in particolare, in quello appena trascorso, lo sbocco di un lungo processo di unificazione lanciato dai padri fondatori dell'Unione Europea all'indomani della seconda guerra mondiale. Chi, in effetti, puo' dimenticare che meno di 15 anni fa, i nostri amici polacchi, cechi, ungheresi, ... vivevano ancora sotto l'oppressione di una doppia tirannia, dittatoriale ed imperialista ! E chi puo' negare l'importanza di questo momento e l'importanza che la prospettiva dell'avvento di questo momento ha significato in questi paesi durante gli anni spesso difficili che hanno seguito la caduta della cortina di ferro. Non noi di certo. Noi che abbiamo vissuto, come loro, la tragedia di questa doppia tirannia. Noi che, come loro, abbiamo vissuto e continuiamo a vivere, le difficoltà immense della ricostruzione. E meno ancora quelli tra noi che hanno vissuto la tragedia della guerra all'indomani della caduta del muro. Eppure, mentre noi tutti, oggi, lavoriamo duramente e in mezzo a mille difficoltà, al radicamento della libertà, della democrazia e dello Stato di Diritto nei nostri rispettivi paesi, continuiamo ad essere tenuti ai margini dell'Europa, ad essere esclusi dal vero processo di unificazione europea. Come se non fossimo anche degli Europei o degli Europei di seconda categoria, indegni di partecipare pienamente alla vita istituzionale e politica dell'Unione Europea. Non vi chiediamo nient'altro che di riconoscerci come Europei quali siamo. Non vi chiediamo altro che di riconoscere che i nostri paesi figurino, come gli altri paesi d'Europa centrale ed orientale, sull'elenco dei paesi candidati all'adesione all'Unione europea. Non vi chiediamo altro che di poter beneficiare, come questi altri paesi, di questo enorme atout che costituisce una prospettiva chiara di adesione a termine all'Unione europea. Sappiamo che l'adesione di ciascuno dei nostri paesi dipenderà dalla propria capacità di soddisfare i criteri politici detti di Copenhagen e i criteri economici fissati dai Trattati e dall'"Acquis communautaire". Non vi chiediamo dunque nessun trattamento di favore, nessun privilegio, nessun favoritismo: solamente di poter lavorare per raggiungere questo fondamentale obiettivo.

Libertà di circolazione delle persone tra Russia e Unione europea

Ma l’Unione deve anche concepire una politica radicalmente diversa per quanto riguarda la Russia. Invece di guardare alla libertà di circolazione della popolazione russa di Kaliningrad dal buco della serratura, potrebbe accogliere la proposta fatta dal Presidente Putin, nello scorso agosto, di creare uno spazio comune di libera circolazione delle persone tra l’intera Federazione russa e l’Unione europea, abolendo il regime dei visti. Sarebbe questo un gesto che più di ogni altro progetto di cooperazione darebbe la misura della volontà concreta dell’UE di stabilire un parternariato strategico tra le due parti del continente europeo che sarebbe anche una risposta concreta alla penuria di manodopera che l’UE riscontrerà sin dal 2006-2007 quando la “piramide des âges” si invertirà e cioè quando usciranno più persone dal mercato di quante vi entreranno. Non dubito che sulla base di un progetto di questa portata, l’Unione avrebbe la forza di chiedere – e di ottenere – dalla controparte russa radicali cambiamenti, a cominciare dalla decolonizzazione della Repubblica cecena alla creazione di un’agenzia comune di riciclaggio dei materiali nucleari bellici e non abbandonati in vari luoghi della Federazione russa, dalla creazione di garanzie sugli investimenti ad un rispetto dei diritti fondamentali compatibili con le norme europee.

5. Voice of Europe

Molto si parla di “prevenzione dei conflitti”, meno di affermazione della democrazia e dello stato di Diritto come mezzo principe – anche se non sempre sufficiente - per prevenire i conflitti. Meno ancora si parla dell’importanza dell’informazione nei paesi antidemocratici per affermare questi principi. In questa ottica i deputati radicali al PE erano riusciti ad inserire nel bilancio dell’Unione del 2002 una voce “Radio Free Europe”, ovvero la richiesta alla Commissione europea di creare una radio europea che realizzasse e diffondesse programmi radiofonici in direzione dei paesi autoritari o dittattoriali nella o nelle lingue locali. Con una serie di iniziative – parlamentari e non – si è cercato quest’anno di incalzare la Commissione perché desse attuazione a questa richiesta del PE. Con argomenti pretestuosi la Commissione si è rifiutata di dare seguito a questa richiesta e non ha reintrodotto questa voce nella sua proposta di bilancio 2003. E purtroppo l’emendamento dei deputati radicali che chiedeva il reinserimento di questa voce, è stato bocciato dal PE. Questo obiettivo non puo’ essere abbandonato. Dovremo prendere delle iniziative per incalzare la Commissione ed il Parlamento affinché la creazione di una tale radio diventi una priorità nel bilancio 2004 che si voterà nel prossimo autunno.

6. L’approfondimento della costruzione europea: l’indispensabile e il possibile


Parlando d’Asia, parlando della porta dell’Asia, siamo già nel cuore della questione europea, della questione dell’Unione europea, del suo divenire e, quindi, anche, dell’appuntamento politico ed istituzionale rappresentato dalla Convenzione sulla riforma dei trattati e della Conferenza Intergovernativa che la seguirà. Come abbiamo potuto riscontrare continuamente nel corso di questi ultimi 6, 7 anni, il Consiglio europeo, la Commissione europea, la maggior parte dei Governi degli Stati membri hanno perrseguito nei confronti dell’Asia una politica definita, per quanto riguarda la Cina, di “dialogo critico” (e la stessa definizione varrebbe per l’insieme degli altri Paesi anti-democratici d’Asia). Questa politica non ha portato a nessun cambiamento in direzione del radicamento della democrazia e dello Stato di diritto in questi Paesi. Al contrario, nella maggior parte di questi Paesi la situazione dei diritti fondamentali è peggiorata. Va notato anche che questa politica è stata portata avanti contro le richieste esplicite del Parlamento europeo, di molti partiti o movimenti politici, di organizzazioni e associazioni di difesa dei diritti umani che chiedevano all’UE di intervenire energicamente non solo per “risolvere” questo o quel caso di grave violazione dei diritti fondamentali, ma per sostenere in modo inequivocabile la democratizzazione di questi Paesi.

Non c’è il minimo dubbio che queste istituzioni, questi responsabili politici si precipiteranno a rivendicare la paternità dei cambiamenti se questi dovessero avvenire nella Repubblica Popolare Cinese o in qualche altro paese oggi retto da un regime dittatoriale, autoritario o totalitario. Non fecero diversamente nel 1989, rivendicando per sé il crollo del regime sovietico quando, per 70 anni e fino al giorno precedente, avevano trattato di tutto e su tutto con l’oligarchia del Kremlino. Siamo abituati, preparati e quindi pronti a sentire anche queste future sciocchezze.

Però se il problema è innanzitutto politico, di volontà politica, è anche istituzionale. L’attuale articolazione istituzionale dell’Unione europea è infatti un incitamento alla non assunzione di responsabilità collettive e alla promozione degli interessi nazionali. Perché i meccanismi decisionali in materia di politica estera sono di tipo intergovernativo, consentono sempre a uno Stato di rimandare la responsabilità su altri Stati membri, oppure su un’altra istituzione dell’UE, oppure sul fatto che la politica “comune” obbliga ad accettare dei compromessi. Oggi abbiamo di fatto ben 16 non-politiche estere: una non-politica per ciascuno dei Paesi membri (domani saranno 25) più una non-politica estera comune. Una realtà che le autorità dei Paesi terzi, specie quelli più antidemocratici, hanno capito perfino meglio degli esperti e osservatori in affari europei e di cui traggono spesso non pochi vantaggi politici, diplomatici ed economici.

L’appuntamento della Convenzione per la riforma dei Trattati presieduta dall’ex-presidente della Repubblica francese, Valery Giscard d’Estaing, ha tra le sue ambizioni anche quella di dotare l’Unione di una politica estera europea degna di questo nome. Ambizione che si inserisce nell’ambizione più generale di predisporre una riforma che faccia dell’Unione a 25 un’Unione in grado di affrontare in modo tempestivo ed efficace le grandi sfide politiche, sia interne che esterne.

A dieci mesi dall’inizio dei suoi lavori, cominciano ad emergere alcune indicazioni sulla direzione che alcuni “convenzionisti”, il loro presidente in testa, e alcuni “convenzionisti-ombra”, capi di Stato o di Governo o ministri degli esteri, intendono prendere. E c’è da essere preoccupati.


La fossilizzazione istituzionale dell’Unione


Primo punto, la riforma predisposta dalla Convenzione che dovrebbe poi essere fatta propria dalla Conferenza intergovernativa non sarà una riforma in “working progress”, con aspetti positivi ed altri meno o addirittura negativi, così come siamo stati abituati con le conferenze intergovernative degli ultimi 15 anni. Per le sue modalità, ma anche per via delle difficoltà ulteriori che nasceranno dall’allargamento ai 10 Paesi d’Europa centrale, la direzione data da questa riforma – che, lo ricordiamo, rimpiazzerà tutti i trattati antecedenti con un nuovo trattato – dovrebbe segnare per molti anni l’evoluzione istituzionale dell’Unione. In altri termini il rischio è quello di assistere a un processo di fossilizzazione istituzionale dell’Unione europea.

Gli effetti negativi di questa fossilizzazione saranno tanto più importanti quanto l’impianto istituzionale scelto dalla Convenzione, e adottato dalla Conferenza intergovernativa, non avrà dato risposte soddisfacenti ad alcune - poche - questioni fondamentali: l’equilibrio tra le istituzioni, il funzionamento delle varie istituzioni e l’impianto istituzionale sul quale si fonderà la politica estera.


Montesquieu, aiuto !


Le polemiche tra i federalisti e i “souverainetistes” e, soprattutto, l’uso che ne viene fatto dagli europeisti - per europeisti si intende sia gli “intergovernativi”, tanto impenitenti quanto attenti a nascondere le proprie intenzioni, sia i "comunitaristi beati" -, non lasciano ben sperare sulla soluzione che verrà data alla vera questione, vecchia come Montesquieu e la rivoluzione americana, dell’equilibrio tra i poteri, ovvero tra le varie istituzioni dell’Unione. Il sacrificio, da tempo annunciato, della Commissione europea - al quale hanno lavorato e continuano a lavorare alcuni capi di Stato e di Governo, a cominciare dallo spagnolo Aznar, dal francese Chirac e dal britannico Blair, con il contributo inconsapevole ma importante del Presidente Prodi e quello consapevole e fattivo del presidente della Convenzione, Giscard d’Estaing - è ormai quasi compiuto. E’ vero che questi possono contare su non pochi alleati. In primo luogo sulle potenti burocrazie dei ministeri degli esteri dei 5 grandi Paesi. Vere e proprie tecnostrutture, queste burocrazie hanno accumulato nel corso degli oltre 40 anni del processo di costruzione europea un enorme potere che “coiffe” buona parte delle competenze dei tradizionali ministeri nazionali. Gestiscono da Bruxelles e dalla propria capitale, in un perpetuo mercanteggiamento, un’immensa ragnatela di interessi ai quali non intendono rinunciare. Non si tratta qui di negare la legittimità di questi interessi. La questione davvero preoccupante è l’assenza perfino della consapevolezza dell’esistenza di questa tecnostruttura europea e del suo potere enorme, indiscusso, incontrollato e incontrollabile. Difficile parlare di contropoteri se non si ha la percezione dei poteri esistenti.

Esiste una via d’uscita a questa deriva a-democratica o anti-democratica ? Esistono i margini per riportare l’Unione europea su binari democratici, dove ai poteri vengono contrapposti contropoteri, dove le competenze delle varie istituzioni sono definite, delimitate, controllate ?

E’, questa, una domanda pertinente trattandosi, in fin dei conti, nientemeno che della vita della democrazia, dello Stato di diritto per i cittadini dei 15 Paesi-membri oggi, dei 25 Stati-membri domani. Ad ogni modo la via d’uscita da questa profonda deriva, così radicata ormai nelle coscienze di chi governa (ma anche di chi è governato), è molto stretta.

E’ mia profonda convinzione che la salvezza dell’Unione – cioè di una Unione democratica – passa hic et nunc dalla salvezza della Commissione. E salvare la Commissione significa salvare quel meccanismo che vedeva nella Commissione il luogo dove sono “mises en oeuvre“, “implemented”, realizzate, le politiche dell’Unione così come approvate dal Consiglio e, da quando c’è e quando c’è la codecisione, dal Parlamento Europeo.

Con l’invenzione, nel Trattato di Maastricht, del 2° e del 3° pilastro si è innescato un meccanismo di segno radicalmente diverso che ha tolto alla Commissione questo suo ruolo, fondamentale, di promotrice e di garante dell’interesse europeo e che lo ha sostituito con una meccanica istituzionale che favorisce non più l’emergere di interessi europei bensì di mediazioni tra interessi nazionali.

Se quest’analisi è esatta, ogni ulteriore modifica nell’assetto dell’Unione che accentui ulteriormente questo nuovo meccanismo a scapito del meccanismo iniziale che vedeva nella Commissione il luogo dell’interesse europeo, rischia di divenire un punto di non ritorno. Due sono i terreni sui quali questa battaglia si giocherà (e già si gioca). Il terreno della “JAI” (Justice et Affares Intérieures), politica della giustizia e degli affari interni (che riguarda materie oggi di competenza dei ministeri degli interni e/o della giustizia) e il terreno della politica estera. E delle due, la seconda è di molto quella più significativa sia per gli aspetti altamente simbolici che la caratterizzano sia, soprattutto, per il fatto, già esplicitato, che si tratta della roccaforte della tecnostruttura europea.

Paradossalmente, solo in apparenza si può dire che la lotta per l’affermazione di una vera politica estera dell’Unione è condizione necessaria, quasi sufficiente, per salvare il futuro del processo di integrazione dell’Europa e che dal rilancio dell’integrazione europea, con la nascita di una vera e propria politica estera europea, dipenderà anche, a meno di accontentarsi di battaglie di mera testimonianza, la possibilità di condurre lotte forti e vincenti per l’affermazione della democrazia e della libertà ovunque nel mondo e, di conseguenza, anche, la possibilità per il singolo cittadino o per le associazioni di cittadini di vivere da cittadino e non da spettatore della vita politica del proprio paese, della propria Unione europea.


L’indispensabile e il possibile


Se, come si sta delineando sempre più chiaramente, questa tecnostruttura europea è riuscita a trovare in alcuni influenti capi di Stato e di Governo, nonché in eminenti figure della Convenzione, potenti sostenitori delle proprie ragioni e interessi, è necessario lavorare a un compromesso alto che, tenendo conto dei timori degli uni, degli interessi degli altri, riesca non solo a preservare i principi-base della democrazia, ma a innescare un meccanismo virtuoso che possa contribuire nello spazio di alcuni anni a dissipare i timori e a trascendere gli interessi oggi percepiti come contrastanti.

Si tratta quindi di trovare un punto di equilibrio tra il Consiglio e la Commissione, risolvendo alcuni, pochi, nodi istituzionali: quello della cosiddetta “presidenza” dell’Unione e quelli che riguardano la politica estera, primo fra i quali, quello della figura istituzionale incaricata della sua “mise en oeuvre”, della sua ’implementation’.

Come per tutte le competenze che sono diventate man mano competenze dell’Unione, la chiave del successo è stata quasi sempre – con la notevole eccezione della politica agricola – la creazione di meccanismi e di tempi di transizione che assicuravano una progressiva “comunitarizzazione” di quella politica e, di conseguenza, una democratizzazione delle sue procedure di definizione e di attuazione. Ma, al Trattato di Maastricht, con l’invenzione del 2° e del 3° pilastro che riguardavano la politica estera e quella degli interni e della giustizia, si è abbandonata questa prassi, anche sulla base di un assunto – falso - che non era possibile immaginare dei meccanismi “transitori” per una materia così sensibile come la politica estera. E’ per questa ragione che è stata concepita una figura istituzionale ad hoc, quella dell’Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Comune.

Per alcuni esiste un rimedio, semplice, a questa deriva. Basterebbe fondere le figure dell’Alto Rappresentante e del Commissario alle relazioni esterne, e farne un vice-presidente della Commissione. Tecnicamente questa soluzione non pone problemi. Con essa si ritorna allo schema classico dove le funzioni esecutive sono affidate alla Commissione. Questa soluzione non va però incontro ai timori, alcuni dei quali assolutamente fondati, degli Stati membri. Non basterà infatti dare al Consiglio il potere di scegliere questo vice-presidente e commissario agli esteri per placare le forti remore esistenti in alcuni Stati.

E’ l’assetto istituzionale complessivo in materia di politica estera che va affrontato. In primis, traendo anche in questo campo lezioni dall’esempio americano e, nella fattispecie, del ruolo e delle prerogative del senato americano, vanno separate le funzioni di definizione – non ultima attraverso la politica di bilancio - della politica estera, affidate al Consiglio e al PE, e le funzioni di gestione, affidate al Vice-Presidente della Commissione e commissario agli Esteri.

Ma nemmeno l’attribuzione al Consiglio di un forte potere di definizione e di controllo della politica estera sarà sufficiente. Bisogna individuare delle tappe intermedie di uno scenario che, ex abrupto, potrebbe apparire come una pura e semplice comunitarizzazione della politica estera. A questo proposito l’esperienza del Sig. Pesc di questi ultimi due anni può darci una prima risposta con il caso Macedonia. Probabilmente per la prima volta, con la Macedonia, una crisi in un Paese terzo è stata affrontata non dai singoli Paesi membri ma dall’Unione. Il Consiglio definì una politica al riguardo e affidò un preciso mandato all’Alto Rappresentante al fine di realizzarla. Non si hanno ricordi di contestazioni, né di “giochi paralleli” da parte di qualche Stato membro. Tutti gli Stati membri sembrano considerarlo un caso positivo.

Altri mandati di questo tipo potrebbero tranquillamente essere dati dal Consiglio al Vice-Presidente della Commissione e commissario agli Esteri.

Però, il vero salto di qualità consisterebbe nel decidere una integrazione vera e propria della politica estera per un insieme di Paesi terzi. I 15 (o i 25) decidono di affidare all’Unione la conduzione esclusiva delle loro relazioni con un certo numero di Paesi terzi, cominciando evidentemente da quelli con i quali nessuno o pochi Stati-membri intrattengono relazioni bilaterali (per esempio, Buthan, Nepal, Nuova Guinea, Timor Orientale, Mongolia, isole del Pacifico, Benin, Sao Tome, Gambia, Malawi, Guinea Equatoriale,...), continuando con quelli che costituiscono, per ovvie ragioni, un problema per la comunità internazionale senza essere oggetti di contenziosi fra gli Stati membri (Ruanda, Burundi, Birmania, Corea del Nord, Afghanistan, Somalia, Zimbabwe, Laos, Sudan, Comore, Eritrea, Liberia, Bielorussia, Tajikistan, Turkmenistan...), proseguendo con quelli con i quali non ci sono particolari divergenze di approccio o scontro di interessi diversi tra gli Stati membri dell’Unione (Uruguay, Paraguay, Guyana, Equatore, Bolivia, Suriname, la maggior parte dei Paesi dell’America centrale e dei Caraibi, Bangladesh, Lesotho, Capo Verde, Namibia, Sierra Leone, Maldive...)

Un tale scenario avrebbe parecchi vantaggi. In primo luogo non si scontrerebbe con delle situazioni che vedono forti e radicate contrapposizioni di interessi tra Stati membri. In secondo luogo consentirebbe - a partire dal trasferimento di diplomatici con esperienza comprovata, dai corpi diplomatici nazionali al nascente corpo diplomatico europeo - di avviare un processo di costruzione di un vero e proprio corpo diplomatico europeo, rimediando allo stesso tempo anche alla fondata critica di mancata adeguata formazione che viene spesso mossa alla Commissione per quanto riguarda l’attuale personale delle delegazioni dell’Unione. Allo stesso modo consentirebbe di iniziare un processo di adeguamento e di potenziamento delle strutture della Direzione Generale Affari Esteri della Commissione (Dir. Relex). In terzo luogo, consentirebbe di creare i meccanismi di collegamento e di lavoro tra queste “ambasciate” e il Commissario agli Esteri e tra questo e il Consiglio (e quindi le capitali degli Stati membri) e il Parlamento europeo. Quarto, consentirebbe a molti dei “piccoli” Stati-membri di poter usufruire di rappresentanze diplomatiche e consolari in Paesi dove fino a quel momento, per ragioni di mezzi e di bilancio, non potevano essere presenti. D’altra parte, un tale scenario non sarebbe in contraddizione con il mantenimento, per gli Stati che lo desiderano, di “rappresentanze economiche e culturali” in questi Paesi (cosa che avviene di già per le entità federate di alcuni Stati membri).

Quello che dobbiamo trovare è quindi un compromesso tra i timori, comprensibili, degli Stati membri di fronte alla rinuncia alle proprie prerogative in materia di politica estera e la necessità di innescare un meccanismo virtuoso che consenta di comunitarizzare progressivamente la politica estera.

E’ evidente che la stesura dell’elenco dei Paesi terzi con i quali le relazioni diplomatiche e la politica estera dei 15 verrebbero “comunitarizzate”, darebbe luogo a lunghe discussioni. Quello che abbiamo stilato prima è, del resto, un elenco puramente esemplificativo. Però, analizzando la presenza diplomatica dei 15, si scopre che solo 4 Stati (Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia) hanno più di 100 ambasciate e rappresentanze nel mondo su un numero di 191 Paesi membri delle Nazioni Unite. Non è quindi affatto impensabile che i 15 possano concordare su un gruppo iniziale di una cinquantina di Paesi-terzi, per i quali la politica estera e, di conseguenza, le relazioni diplomatiche diventano competenza esclusiva dell’Unione. Va da sé che questo nucleo iniziale di Paesi per i quali la politica estera è comunitarizzata potrebbe essere progressivamente esteso con una decisione del Consiglio.


La questione della Presidenza dell’Unione


Anche se dovessimo assistere a un avvio vero di comunitarizzazione della politica estera (e parallelamente, a una comunitarizzazione di alcune parti della politica della giustizia e degli interni, ma questo pone problemi facilmente sormontabili), è indubbio che un tale processo avrà bisogno di tempo prima di divenire accettabile dagli Stati membri per l’insieme – e quindi per gli aspetti più sensibili – dei loro rapporti con gli Stati Terzi. Una cosa è definire e attuare una politica unica nei confronti del Buthan, altra cosa è farlo per un’insieme di Stati con i quali l’uno o l’altro Stato dell’Unione ha stabilito nel corso della storia rapporti privilegiati e complessi. Basta pensare alla storia che lega alcuni degli Stati membri con Paesi africani, americani o asiatici. Ci sono poi le questioni fondamentali delle relazioni transatlantiche e quindi delle relazioni con gli Stati Uniti, degli importanti rapporti economici con Paesi quali il Giappone, la Cina, il Brasile, l’appartenenza o meno alla Nato, lo status di membro permanente di due Stati membri al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Sarà quindi necessario un forte consolidamento del meccanismo “comunitario”, nelle sue varie articolazioni istituzionali (Consiglio, Commissione, Parlamento) prima che la fiducia porti gli Stati membri a rinunciare all’esercizio della politica estera nelle forme che oggi conosciamo.

Questo per dire che tutto dovrebbe fare questa Convenzione salvo considerare che si è raggiunto un livello di maturazione tale da poter determinare una volta per tutte le competenze e l’articolazione delle varie istituzioni. Quello che questa Convenzione deve fare, a mio avviso, è proporre un tipo di funzionamento che, oltre a migliorarne l’attuale e ad aumentare il tasso di democraticità della costruzione europea (con, in particolare, la generalizzazione della codecisione per le materie comunitarizzate e, quindi, del voto a maggioranza del Consiglio su queste materie, un’applicazione effettiva del principio di sussidiarietà, una semplificazione dei trattati...), preveda dei meccanismi dinamici che consentano, nello spazio di 7-8 anni, ovvero nel 2011-2012, alla vigilia dell’allargamento ai Paesi dei Balcani e del Caucaso, di riconvocare una Convenzione che sia in grado di proporre un salto istituzionale tempificato verso la comunitarizzazione dell’insieme della politica estera, della politica di sicurezza e di difesa, e di parti della politica degli interni e della giustizia che, eventualmente, si riterrà ancora necessario “comunitarizzare”.

Per tutte queste ragioni, sono profondamente convinto che sarebbe solo negativo ingaggiare in questo momento storico una battaglia per sapere chi, tra il Consiglio, la Commissione o un’altra istituzione, dovrà “guidare”, “presiedere” l’Unione. Credo piuttosto che serva prendere atto di tre elementi di valutazione:

- il Consiglio, oltre al suo ruolo di rappresentante degli Stati, riveste in una fase di transizione come questa, un ruolo chiave;

- il ruolo di garante dell’interesse europeo della Commissione è insostituibile;

- con l’istituzione del meccanismo della codecisione, la dialettica tra il Consiglio e il Parlamento ha dimostrato di funzionare; può e deve quindi essere estesa a tutte le materie “comunitarizzate”, ivi compresa la PAC, la politica estera e la politica degli interni e della giustizia nelle loro parti che verrebbero comunitarizzate.




Un possibile punto d’equilibrio....


Il Consiglio elegge, tra i suoi membri, per una durata di due anni, un presidente che, oltre a presiedere il Consiglio, è anche - in questa fase transitoria - il Presidente dell’Unione. Rappresenta l’Unione, accredita gli ambasciatori, ... Per le materie “comunitarizzate”, il Consiglio ha come compito, insieme al PE, di definire – con lo strumento del bilancio e con altre forme legislative e regolamentari - le politiche dell’Unione e di controllare la buona esecuzione di queste politiche da parte della Commissione. Per le parti della politica estera e della politica degli interni e della giustizia non comunitarizzate, il Consiglio continua a decidere all’unanimità per quanto riguarda la definizione di queste politiche, alla maggioranza per quanto ne riguarda l’attuazione.

Un Congresso europeo, composto dai parlamentari europei e da un numero uguale di parlamentari nazionali, elegge, per un mandato di 5 anni e con la procedura del ticket, il Presidente e il Vice-presidente/Commissario agli Esteri. La procedura della fiducia viene quindi abolita e rimpiazzata da una procedura di impeachment. La Commissione è incaricata di proporre al Consiglio e al Parlamento europeo le politiche dell’Unione nei settori di sua competenza e di realizzare le politiche dell’Unione. Il Presidente della Commissione sceglie un numero di commissari che non può superare 15, non compreso il presidente e il vicepresidente. Ogni Stato che non ha un commissario detiene almeno un vice-commissario. I vice-commissari possono assistere a tutti i lavori della Commissione e parteciparvi ogni qualvolta le questioni affrontate rientrano nelle proprie competenze. Il vice-Presidente e commissario agli Esteri è assistito da 8 vice-commissari (per l’Europa orientale e l’Asia centrale; per l’Africa occidentale e centrale; per l’Africa orientale e meridionale; per l’Asia del Sud; per l’Asia dell’Est; per l’Asia del Sud-Est e l’Asia insulare; per l’America centrale e del Nord; per l’America del Sud). Il portafoglio di commissario alla Cooperazione allo Sviluppo è abolito.

Il Parlamento partecipa, insieme al Consiglio, alla definizione di tutte le politiche, all’eccezione delle materie non-comunitarizzate sulle quali ha solo il diritto di emettere un parere non vincolante per il Consiglio.




Per un grande rilancio di un antico fronte radicale


Non possiamo continuare a tenerci ai margini di quest’appuntamento, fuori, o quasi, dal dibattito, dalla riflessione sul futuro dell’Europa. Sarebbe politicamente irresponsabile. Ma sarebbe anche la dimostrazione di una mancanza di senso dell’opportunità. Esistono oggi in Europa forze politiche, cittadine e cittadini, che cercano di uscire dalla palude dei dibattiti cosmetici e delle proposte reazionarie nelle quali alcuni potenti e alcuni potentati vogliono confinare la riflessione sul futuro dell’Europa. Accade in particolare in alcuni Stati membri “piccoli”. Accade in molti di quei 10 Stati che diventeranno, tra poco, membri dell’Unione. Accade in molti di quegli Stati che l’Unione si ostina a emarginare, a escludere da qualsiasi prospettiva di integrazione, a cominciare dai Paesi balcanici e caucasici. Accade in alcuni partiti nazionali, specie all’opposizione, in quegli Stati dove la posizione del Governo è pù retrograda.

Il Partito Radicale Transnazionale può e deve lavorare perché queste forze si uniscano su un progetto che riaffermi le ragioni che sono alla base del processo di integrazione europea e che rilanci le ragioni che non hanno trovato finora risposte adeguate alla loro importanza: l’affermazione al livello europeo, al livello delle istituzioni europee, della democrazia e dello Stato di diritto.
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Globaliser la démocratie: de l'Asie à l'Europe, parcours, connexions, contradictions et nécessités
de Olivier Dupuis
"Globalizimi i demokracisë: nga Azia në Evropë, rrugë, lidhje, kontradikta e domosdoshmëri"
Relacioni i Olivier Dupuis-it
Globalise democracy: from Asia to Europe, paths, connections, contradictions and needs.
by Olivier Dupuis