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07/12/2003 | PER IL FEDERALISMO LINGUISTICO EUROPEO. Comunicazione di Giorgio Pagano al Convegno radicale europeo:“Per la riforma federalista europea”

Nel Manifesto di Ventotene poco prima del famoso passo in cui viene spiegata quale sia la linea di divisione tra partiti progressisti e reazionari, troviamo un capoverso dove si prefigura il ruolo peculiare che gli Stati Uniti d’Europa dovrebbero svolgere verso il macro obiettivo dell’unità internazionale, ossia degli Stati Uniti del Mondo.

Quel capoverso così recita: “quando, superando l'orizzonte del vecchio continente, si abbracci in una visione d’insieme tutti i popoli che costituiscono l'umanità, bisogna pur riconoscere che la federazione europea è l'unica garanzia concepibile che i rapporti con i popoli asiatici e americani possano svolgersi su una base di pacifica cooperazione, in attesa di un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l'unità politica dell'intero globo.”

Spinelli, Rossi e Colorni, dunque, riconoscono alla federazione europea un fondamentale ruolo di cerniera tra Ovest ed Est, di garanzia affinché i rapporti tra i due emisferi non siano conflittuali.

A 63 anni di distanza da quel Manifesto è evidente a tutti il divario tra quella prefigurazione e l’attuale miseria politica europea. Miseria politica giunta a vedere quale unica possibilità del proprio futuro un Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa dove, la parola federalismo, non esiste nemmeno per sbaglio.

E se grande divario c’è tra prefigurazione e realtà del processo di unificazione europea un qualche errore da qualche parte va cercato a partire proprio da quel Manifesto.

Io credo che noi radicali questa ricerca non solo l’abbiamo fatta ma che essa sia stata anche coronata dalla corretta soluzione individuata.

Lo è stata nel momento in cui Guy Heraud, tra i massimi esperti di federalismo europeo, nella sua relazione al 36° Congresso del Partito radicale, nel 1992, ci spiegò come, per quanto concernesse gli Stati Uniti d’Europa, fosse di gran lunga più opportuno perseguirli attraverso il federalismo linguistico che non attraverso la classica concezione del federalismo tra Stati i quali, in Europa, sono entità politiche alquanto eterogenee dal punto di vista della lingua e della cultura.

Il federalismo storico, quello per intenderci al quale fa riferimento anche il Manifesto di Ventotene, - diceva allora Heraud - non ha nessun effetto nocivo in una Federazione unilingue (del tipo Stati-Uniti, Germania o Australia) ma, nelle Federazioni plurilingue (Svizzera, Canada) esso si accompagna a molteplicità linguistiche e, la Federazione, rispettosa delle competenze dei suoi membri, non può difenderle come si deve. È la ragione essenziale per cui si è incitati a proporre una Federazione europea di tipo linguistico.”

Federalismo linguistico dove, il ruolo di lingua federale, veniva assegnato anche da Heraud all’Esperanto in forza della sua neutralità. “Infatti – continuava l’Emerito Professore di Diritto - se tutti gli europei adottano come seconda lingua comune una lingua come l’inglese, si pongono ipso facto in una situazione di semi-colonizzazione linguistica e culturale. Quando un popolo intero addotta la stessa lingua straniera, ha già fatto la metà del cammino verso l’imbastardimento e l’assimilazione.”

Da allora, la prospettiva linguainternazionalista, perseguita da diversi compagni radicali si è mano a mano rafforzata, non tanto per ciò che riguarda la forza politica - a tutt’oggi assolutamente inadeguata - quanto nelle ragioni di quella scelta federalista sulla lingua.

Mentre Heraud parlava di “cammino verso l’imbastardimento e l’assimilazione” il linguista americano Michael Krauss, intorno alla metà degli anni ‘90, denunciava il fatto che quello che si andava compiendo nel mondo era un’accentuazione parossistica della mortalità linguistica le cui cause sono, parole di Krauss: “il vero e proprio genocidio, la distruzione economica e sociale dell'habitat, gli spostamenti, la sommersione demografica, la soppressione linguistica nell'ambito della forzata assimilazione o educazione linguistica, il bombardamento elettronico dei media, specialmente quello della televisione, una nuova arma incalcolabilmente letale sorta di gas nervino culturale.”

Genocidio linguistico-culturale che, su base statistica, il linguista americano arrivava ad indicare intorno al 90-95% del patrimonio dell’umanità entro il XXI secolo.

Tale allarme, nel frattempo, è divenuto consapevolezza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite le quali, attraverso l’UNESCO, pubblicano regolarmente un “Atlante delle lingue in pericolo o scomparse”.

Nella versione del 2001 di tale Atlante le lingue morte o moribonde del continente europeo assommano a 128.

A ciò si è aggiunta, negli ultimi 2-3 anni anche la denuncia verso il proprio mezzo di espressione linguistica e la considerazione nei confronti della soluzione esperantista, da parte degli stessi media anglofoni: dall’Economist, a The Indipendent al Guardian, a News Week.

Tali denunce si basano sul fatto che, comunque la si metta e in una prospettiva di democrazia globale, l’inglese è difficile; è imperialista, nel senso che – come recita l’Economist - ha come effetto pratico quello della costruzione di un Impero mondiale degli Stati Uniti d’America; distrugge le lingue e il mercato linguistico – The indipendent parla di inglese “linguicida” –; ha l’effetto di rendere sempre più culturalmente ignoranti e meno competenti nelle altre lingue gli stessi anglofoni, i quali non studiano più le lingue. Infine, in considerazione dell’ormai storico fallimento di qualsiasi misura di protezionismo linguistico (si veda anzitutto quello esercitato soprattutto dalla francofonia) si indica come positiva e da perseguire la prospettiva esperantista.



Inutile nascondersi che, per dei Paesi i quali hanno fatto della loro politica linguistica un dato importantissimo di politica estera e d’espansione delle proprie economie, anche il fatto d’essere sostanzialmente monolingui, non ne fa certamente i paladini più adatti.

Soprattutto perché divisi tra tensione ideale verso la democrazia e interessi nazionali in gioco.

Anche se, nella principale caratteristica americana, quella del pragmatismo, ha già avuto modo d’inverarsi una storica adesione all’opportunità esperantista: sto parlando del fatto che, negli anni ’60, per rendere maggiormente credibili le proprie esercitazioni militari, l’esercito statunitense utilizzava l’esperanto come lingua dei propri soldati che recitavano la parte del nemico: insomma se devi esercitarti ad ammazzare qualcuno tale esercizio diviene assai più difficile se colui che ti è di fronte come nemico parla la tua stessa lingua e, se dei soldati devono apprendere una lingua diversa dall’inglese, ovviamente si deve scegliere quella più semplice sul mercato.



E’ l’Europa dell’allargamento che, con in prospettiva 20 lingue ufficiali e dietro il fallimento del plurilinguismo - colpito a morte in quella che potremmo definire la Guerra delle Lingue -, può e deve trovare la strada per affermare la via democratica alla comunicazione internazionale e il cammino verso il federalismo linguistico.



Operando una netta separazione tra la necessità che sovrintende alla comunicazione transnazionale e le esigenze culturali d’apprendimento di una lingua straniera per il piacere e la voglia d’apprenderla:

- dietro il concetto di lingua internazionale deve esserci l’idea di una lingua che serve a tutelare tutti nella comunicazione transnazionale, senza discriminazione alcuna. Per tutti intendo davvero tutti: una lingua semplice che possa essere appresa pienamente nell’arco della scuola dell’obbligo ma, anche, da chi la scuola dell’obbligo l’ha finita da un pezzo, una sorta di lingua pubblica (così come c’è una scuola o una sanità pubblica, nel senso di tutti), di lingua di comunicazione sociale che, appunto, in quanto pubblica e sociale non appartiene ad alcun sistema linguistico “privato” (nel senso di etnico, nel senso quindi di francese, inglese, giapponese…) né privilegia un ceto più ricco piuttosto che un popolo più potente.

- il concetto di lingua straniera deve tornare ad essere quello sano ed umanistico di studio per la conoscenza di culture e popoli: non - com’è stato stravolto oggi - devo studiare l’inglese per trovare lavoro ma, ad esempio, voglio studiare l’arabo perché m’incuriosisce questa cultura così diversa dalla mia.

Liberando così il mercato delle lingue da ogni pastoia monopolista e monopolizzatrice, soffocatrice di diversità e libertà.



A ciò s’aggiungono fondamentali considerazioni legate al nostro sviluppo economico.

Con la direzione del Premio Nobel per l’Economia R. Selten nel libro di vari autori “I costi della non comunicazione linguistica europea”, abbiamo prospettato quali siano, già ora, prima dell’allargamento, i costi che i cittadini pagano per la loro (non) comunicazione linguistica. Lo denunciavamo per un’Unione con undici lingue, potete immaginare cosa può esserlo per un’Europa a venti lingue che arriva a contare quasi il doppio degli abitanti degli Stati Uniti.

Quello che va ora imprescindibilmente considerato è che senza una lingua comune ufficiale dell’Unione la mobilità, l’economia, il lavoro di centinaia di milioni di eurocittadini è bloccato. Il sistema Europa può solo girare al minimo, ingolfarsi, spegnersi implodendo.

Dopo l’introduzione dell’Euro se si vuole costruire un’Europa che non sia un perenne nano politico va data massima priorità all’introduzione della Lingua Internazionale, una lingua di servizio pubblico europeo, comune per tutti ( e non, inglesi a parte!) e che da tutti possa essere sentita come propria preservando, nel contempo, le lingue materne di ciascuno. Il grave errore politico del Movimento federalista europeo e dei federalisti europei in genere è stato proprio questo: non aver compreso che senza una “lingua federale” la federazione europea non avrebbe potuto (e non può) nascere per il semplice motivo che centinaia di milioni di persone pur potendo aderirvi idealmente di fatto ne sono tenuti fuori. Qualche numero? Sono circa 180 milioni, su 450, le persone che in Europa hanno a malapena la scuola dell’obbligo quale titolo di studio.

Senza il nervo politico della lingua federale europea l’attuale nostro slogan “Per gli Stati Uniti d’Europa e d’America” rischia d’avere un’unica prospettiva, quella indicata da Alberoni in un vecchio articolo del 1987 sul Corriere della Sera. In esso il sociologo si chiedeva: ma se quest’Europa è così incapace di prendere sulle spalle il proprio futuro, è così invertebrata, perché non aderire direttamente agli Stati Uniti d’America concorrendo così noi ad eleggere quel Presidente?

Io sono certo che agli americani non piacciano affatto gl’invertebrati, Che i falliti degli Stati Uniti d’Europa possano aspirare a divenire ulteriori stelle della bandiera americana credo sia impresa suicida.

Ritengo, invece, che noi dobbiamo riuscire a divenire, ad essere, gli americani d’Europa e, oggi, essere un americano d’Europa significa essere esperantista. Da qui parte il contributo europeo, positivo e non parassitario, alla costruzione degli Stati Uniti del Mondo, d’un balzo con i piedi nel piatto dell’Organizzazione mondiale della democrazia e delle democrazie.

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